Il bianco.
Il bianco è la cosa più totale che c’è. Ti risucchia, ti annulla completamente. Come questa pagina, prima che sia sporcata da parole per lo più senza senso, che rovinano per sempre la sua purezza infinita.
In montagna c’è il bianco. Le cose, le altre, sono dettagli che spuntano nel tentativo di affermarsi, di riportare in vita loro stesse e noi, a rimorchio. Le piccole macchie nere del bosco carico di neve, il fumo che esce da una casa che non si vede ma che vuole esserci per forza, sciocca e ostinata. Un paio di pellicce che camminano su piedoni colorati, senza meta apparente, incongrue, sbuffando vapore. L’odore del legno, forse.
La strada è bianca e levigata, in forte pendenza, confusa col cielo uguale, indistinto. Neve sotto e neve sopra. Neve passata, presente e futura.
Con lo stupore dei miei quindici anni scivolo sulla strada bianca, nel silenzio più simile a Dio che abbia mai sentito, un silenzio nel quale lo shhh delle lamine che costituiscono il pavimento della slitta di legno, uno slittino da quattro soldi che avrà trent’anni, lo shhhhh, dicevo, è un sussurro acuto, stridente ma dolce, amico della strada e degli alberi che ci guardano neri, altissimi.
Non sono seduto. Me l’hanno insegnato i montanari, in slitta non vai giù seduto come un babbo natale grasso e pacifico , se vuoi correre, se vuoi divertirti davvero. Fare finta che non importa se ancora non sai sciare. Si sta sdraiati a pancia sotto, con la faccia al vento e le punte dei piedi che sfiorano la terra. Un tocco del piede destro e si va a destra, un tocco del sinistro e la slitta piega a mancina. Piano però. E’ tutto un equilibrio perennemente precario. Guai a esagerare coi tocchi di piede. Lo slittino è capace di rivoltartisi contro e scartare, imbizzarrito come un ronzino fattosi destriero scalpitante, e disarcionarti senza complimenti.
Si va giù che è un piacere. La strada bianca è libera, sgombera da presenze di ogni genere, scende flessuosa di curve maestose, materne, che affronti sempre più veloce, sicuro, concentrato sulla strada bianca e sul vento freddo che ti tiene sveglio, sognante ma vigile.
Il rettilineo finale. Il bianco comincia a rompersi, a sfrangiarsi in segnali banali, quasi volgari. Le case cercano di riaffermare la loro sciocca supremazia sugli abeti, il colore riappare qua e là, subdolo.
Una macchina blu è ferma sul rettilineo, e occupa quasi tutta la strada. Le sue ruote slittano, non riesce né ad avanzare né ad indietreggiare, produce rumore e un incredibile quantità di fumo dallo scappamento.
Potrei inchiodare il piede destro nella neve e scartare bruscamente per poi ribaltarmi, senza gravi danni. Al massimo una botta sul sedere. Potrei buttarmi direttamente nel fosso che segue la strada sempre, come un angelo custode, e finire nei cumuli di neve fresca. Un po’ di ammaccature, intirizzito, fradicio ma col sorriso sulle labbra a mascherare la vergogna del solito cittadino imbranato, rimesso in piedi dal montanaro burbero di poche, sfottenti parole in dialetto veneto.
Invece scelgo di provarci. C’è lo spazio per passare, a sinistra, di fare figuracce coi montanari non mi va mica tanto. Ce la posso fare, eccome.
Ma il cervello non è lucido come credo e il piede non dosa il suo tocco a dovere. La slitta fa una ventina di metri a zig zag, la targa della macchina blu diventa sempre più grande, BL 786553, all’ultimo mi sollevo dalla slitta in un tentativo istintivo di parare il colpo.
Probabilmente si sente il crac. Il dolore non è fortissimo, almeno non come l’orrore di sentire un osso della spalla che fluttua liberamente all’interno del luogo dove, finora, aveva svolto le sue silenziose mansioni. osso di cui non conoscevi esistenza e nome.
Si chiama clavicola quell’osso. Da allora lo so.