Un grande amico Mario Spinella

Il 17 marzo di cento anni fa nasceva a Varese Mario Spinella.

L’ultima volta che ho visto Mario è stata anche l’unica occasione in cui l’ho incontrato per caso. Di solito andavo a trovarlo a viale Premuda quando mi trovavo a Milano, o ci si vedeva per partecipare a qualche evento, e nei primi anni Novanta per le riunioni di redazione del Piccolo Hans, le ultime di una straordinaria avventura ventennale, che per me erano le prime.
Credo di averlo conosciuto nell’autunno del 1982, dopo che avevo già cominciato a collaborare con la rivista e avevo saputo da Ermanno Krumm (un altro amico che mi manca molto) che era stato lui a insistere perché quel mio primo saggio, malgrado le sue pecche, venisse pubblicato.
Di queste aperture di credito ai giovani (e persino alla loro inevitabile ingenua supponenza) ne avrei avute molte testimonianze nel decennio della nostra frequentazione; e quando dopo la sua morte gli allora cyberpunk Wonder Woman e Gomma (con Raf Valvola e Marco Philopat motorini a quei tempi del centro sociale Conchetta e poi delle edizioni Shake) mi raccontarono in due circostanze diverse del loro debito con Mario (classe 1918), non ebbi proprio di che stupirmi.
Nel nostro primo incontro ricordo che parlammo per lo più di Contini, che Mario aveva conosciuto alla Normale. La cosa mi sorprese, perché ero andato a quell’appuntamento, con l’apprensione del caso, convinto che ci saremmo intrattenuti su Marx e la scuola di Francoforte, magari su Jakobson e Benveniste, e naturalmente su Jacques Lacan.
Che potessero consuonare tutti insieme, e senza stecche, me l’aveva insegnato proprio il Piccolo Hans, di cui ero diventato lettore dal 1979. Dell’intellettuale che avrei incontrato in quel giorno di novembre del resto sapevo che era stato partigiano dalla lettura di Memoria della Resistenza, e conoscevo il grande impegno che stava dedicando in quel periodo ad Alfabeta; ma avevo solo una vaga idea (da quell’extraparlamentare che ero) del suo passato coinvolgimento nel gruppo dirigente del PCI.
Avrei appreso solo dopo che nell’immediato dopoguerra era stato segretario di Togliatti, e che aveva diretto la scuola quadri delle Frattocchie fino ai fatti di Ungheria. Certo, dai saggi che pubblicava sul Piccolo Hans emergevano molte delle sue passioni letterarie, da Proust ad Ariosto, senza dimenticare Guicciardini Gramsci e Freud, e per altri versi Gadda e Joyce (e certi linguisti oltranzosi come Ivan Fònagy).
Pure, che quel primo incontro si risolvesse in un elogio di Contini (a due voci, anzi a una voce e mezza, perché ero per davvero troppo emozionato) non me lo sarei mai aspettato. Avrei però smesso presto di stupirmi: la prima vocazione di Mario Spinella era stata addirittura filologica, e aveva avuto il tempo di fare il lettore d’italiano a Heidelberg, prima di essere spedito con l’ARMIR in Russia, con la mitica minuscola edizione del Furioso nel taschino.
Le circostanze gli avevano certo impedito una tranquilla carriera accademica, ma con la presa di posizione politica maturata durante quella guerra e la scelta per la Resistenza, per lui si sarebbe squadernato anche un campo di curiosità intellettuali che magari la compartimentazione stagna delle nostre discipline universitarie gli avrebbe represso.
In quell’incontro insomma compresi qualcosa che le prime riunioni di redazione del Piccolo Hans alle quali partecipai avrebbero confermato: Mario Spinella era, con Virginia Finzi Ghisi e Sergio Finzi, non un redattore ma il cuore pulsante di quella “rivista di analisi materialistica”. Quell’avventura straordinaria era cominciata agl’inizi degli anni Settanta con un’altra rivista che ebbe non poche ricadute, Utopia, e avrebbe (di nome in nome) dato per un quarto di secolo senso alla cultura milanese, e a quella italiana.
Passione intellettuale e impegno politico erano del resto in Mario tutt’uno. Al punto che quando lo intervistai per la trasmissione radiofonica Audiobox che conducevo all’epoca della prima guerra del Golfo, fu l’unico (con Giovanni Raboni e Paolo Volponi) a schierarsi con estrema veemenza contro il coinvolgimento militare italiano. Ricordo chiaramente che la voce gli tremava dalla rabbia.
Fu invece nel tardo pomeriggio di un giorno di luglio che, come dicevo, incontrai per caso e per l’ultima volta Mario. Era il 1993. Un temporale aveva ripulito l’aria, e stavo passeggiando sui Navigli quando lo scorsi appoggiato a un parapetto. Possibile che stesse dando da mangiare alle anatre? Questo particolare mi suona un po’ stonato, però mi torna in mente.
Ci salutammo e cominciammo a parlare, penso soprattutto di Rock, il romanzo che stava scrivendo, e che è stato recentemente dato alle stampe. Dispersa dall’acquazzone la cappa d’afa, il tramonto era di quelli che raramente si vedono in città in quella stagione. Mi pare che fossimo controluce e sporti tutt’e due verso il Naviglio quando Mario, non ricordo esattamente a che proposito, si voltò verso di me e mi disse con un leggero sorriso: “Non so tu, ma io rimango comunista”.

rimarrà mario
questo tuo sogno questo sogno nostro
questo tuo sogno nostro che non cede
resiste questo sogno che non vede
sorgere il sole che dilegui il mostro
della sopraffazione questo nostro
sogno che ci hai sognato che le prede
libera dai rapaci questa fede
felice esiste resta è il nostro inchiostro
e adesso che ritornerà l’estate
afosa di zanzare sul naviglio
dove passa e s’azzuffa l’ottimismo
di questa gente che si vive a rate
tu resterai quasi dal nostro esilio
si vedesse venire il comunismo
da: Gabriele Frasca, “Lime”, Einaudi, 1995.

PS = Era un grande amico, ricco di sapere e di saperi, dolcissimo. Sapeva esserti vicino nella gioia e nel dolore, anche se non eri un gran comunista come lui, anzi, anche se non lo eri per niente. Giovanna Nuvoletti

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