Thelma e Louise in miniatura
di Costanza Firrao
Disneyland è a due passi e tutta la zona brulica di turisti, fast food, negozi che vendono paccottiglia. Moonie, Scootie e Jancey sono tre bambinetti intorno ai 6 anni che nonostante la tenera età, vivono in modo indipendente, sempre in giro per conto loro a combinarne una più del diavolo. Le mamme o le nonne – i padri sono assenti o quasi – lavoricchiano in nero, chi fa la cameriera in un bar, chi arrotonda facendo una sveltina o vendendo profumi taroccati. La zona in cui vivono i tre marmocchi (due bimbe e un bimbo) è vasta ma (quasi) protetta, un quartiere satellite e sgarruppato fatto di casette a schiera, tutte uguali e dai colori improbabili. A presidiarlo c’è Bobby, il manager, un brav’uomo che, al di là della carica pomposa, deve arrabattarsi anche lui, tra le richieste pressanti della proprietà e le intemperanze degli inquilini. Il regista Sean Baker, acuto osservatore della odierna
way of live statunitense, mette a punto un film perfetto: ambientazione, ritmo, dialoghi che potrebbero essere da sit-com e che invece creano i presupposti per un disincantato, spesso feroce ritratto della società americana, vista con e attraverso gli occhi dei tre bambini. Delle due femmine in primo luogo – la prestazione del maschietto è saltuaria – due Thelma e Louise in miniatura che sfidano l’autorità costituita, se ne fregano di quel minimo di regole che vengono loro imposte e si prendono gioco di tutto e tutti, senza pudore, ammiccando alla vita con malizia consumata. Soprattutto la piccola Moonie, impersonata da
Brooklynn Prince (8 anni), che batte in simpatia e arguzia tutte le sue nobili “antenate” da Shirley Temple a Tatum O’Neal. Tra la fantasia artefatta di Disneyland e la realtà da favela in cui sono immerse, le due bimbette si creano un mondo parallelo, non scevro di pericoli, in cui certi sentimenti naturali – l’amore per la madre, anche la più inetta tra le madri; l’amicizia e la condivisione – resistono, nonostante i cattivi esempi e le pessime compagnie. Unico attore noto
Willem Dafoe che interpreta l’umanissimo Bobby, già candidato agli Oscar 2018 come miglior attore non protagonista. “
Un sogno chiamato Florida“, un piccolo film indipendente che andrà lontano.
Un film che ti si pianta nel cuore
di Giuliana Maldini
Ci sono dei film che si piantano nel cuore per molti molti giorni. “Un sogno chiamato Florida” è uno di questi, in cui i protagonisti sono bambini, una bambina di 6 anni, soprattutto, alla quale vuoi bene da subito perché è intelligente, vivacissima, trasgressiva, carismatica e in qualche modo felice nonostante l’ambiente degradato in cui vive, e perché è amata da sua madre, una giovane donna più immatura di lei. E vuoi anche bene a questa mamma ragazzina, sbandata e incapace di prendersi cura in modo adeguato della bambina, essendo incapace di prendersi cura di sé. Questo film fa riflettere sui tanti, troppi, luoghi del mondo in cui esistono realtà così, senza speranza, senza soldi e senza futuro. In questo caso la vicenda si svolge in un sobborgo di Orlando in Florida ma potrebbe essere ambientata nelle favelas del Brasile o in Africa o in Tailandia e ciò che accomuna tutti questi mondi poveri e sbandati è la totale assenza dei padri. Qui esiste una sola figura maschile bellissima, interpretata magistralmente da Willem Dafoe che però non riesce ad essere protettivo come vorrebbe. Un film che ti fa sorridere, commuovere e straziare ma chi ama il cinema dovrebbe assolutamente vederlo.
Un sogno chiamato Florida di Sean Baker – USA 2017
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