Ci eravamo seduti vicini. Non era stato possibile ignorarci. Il traghetto era pressoché vuoto, benché fossimo già al principio della bella stagione. Una corsa mattutina, di quelle che si scelgono quando devi trovarti a Napoli a mezzogiorno e pianifichi una traversata più lunga per concederti una pausa: leggere il giornale, un libro, o riflettere, lasciando che cielo e mare trascorrano pigri sul nastro di vetro unendosi in una sola linea centrale appena distinguibile.
La conversazione procedeva dapprima come una partita di ping pong, domanda e risposta, poi cercando con cautela gli argomenti sui quali era presumibile, in base alla frequentazione passata, di trovarsi d’accordo. Eravamo entrambi vigili nel non toccare discorsi che potessero includere situazioni o persone da incolpare tra i motivi che ci avevano portato a quell’educata freddezza, ormai da molto tempo. E invece accade che, nel parlare, corpi e gesti, prima dei pensieri, ritrovassero poco alla volta la scioltezza dell’intimità e il tempo, intrappolato in una bolla, restasse sospeso.
Eravamo ritornati amanti, senza che ce ne fossimo accorti. Eppure sarebbe bastato ritrarsi per un istante per rompere l’equilibrio perfetto.
Sul nastro la linea centrale si ispessì nella sagoma della città offuscata dal sole. Ci salutammo con maggiore imbarazzo di quanto non avessimo fatto nell’incontrarci. Eravamo consapevoli che ritrovarsi è perdersi di nuovo, forse per sempre.