L’ultima volta che abbiamo parlato, che hai cercato la mia voce e la mia mano, fu nella terapia intensiva, dopo il tentativo estremo di riprenderti alla vita.
In quel luogo – che non dimentico – un grande scantinato, freddissimo, dove ti si poteva parlare solo per pochi minuti: una scena, assurda… tu, sempre così pudica, coperta da un domopak argentato, il petto costellato di lividi, le macchine che ne monitoravano il battito, su e giù.
Mi afferrasti la mano, quanta forza ancora, quale inaspettato vigore, e mi chiedesti di giurarti che non eri morta, che eri ancora viva… GIURAMELO…
Gli occhi sbigottiti, non riuscivano a trovare tregua, li muovevi intorno e poi fermi su di me, in quella richiesta implacabile, nuova, assurda a te stessa.
Le provai tutte, il pizzicotto, le carezze, le lacrime… Niente, non riuscivo a convincerti, a calmare l’inquietudine metafisica e afasica, a dare pace al tuo viso deformato dall’angoscia.
“ Te lo giuro, su mia figlia, sono sua madre, mamma, come potrei mentirti? “.
Il vento forte del pensiero, un vento potentissimo, che modifica al suo passaggio lo stato dei luoghi, un ghibli che cancella le forme della sabbia, ti spiano’ la faccia. La parola, madre, fu la zattera a cui ti aggrappasti per resistere al terrore dell’indistinto dov’eri precipitata…
Tra i bip delle macchine per il monitoraggio la distinguesti e ti persuase, ti riportò alla vita, a me, riconoscente e come chiara, sorridente, lieve creatura.
Fu l’ultima volta che la usai, quella parola, non per chiamarti, ma per dirti la verità. Madre.