Le feste dei sessantenni esistono. Eccome. E dico sessantenni così, per essere buono, perché in realtà si va oltre, anche parecchio. Diciamo che molti dei partecipanti hanno già cominciato a scorgere quel “7” che incombe su un orizzonte reale, concreto. Visibile ad occhio nudo.
Il “7”, quello dei settanta, fa paura né più e né meno come ogni cifra che annuncia il nuovo decennio individuale. E’ stato così a partire dal “3”, perché (mi sembra di ricordare), anche compiere trent’anni il suo effetto lo faceva e la cifra “29” aveva (mi sembra di ricordare) il vago, inquieto sapore di una tragedia imminente. O almeno rappresentava un segnale ammonitore, un “datti da fare perché d’ora in poi c’è poco da scherzare”.
Invece, bisogna dirlo, non è stato così. Abbiamo amato, lavorato, fatto figli, qualcuno anche soldi. Qualcuno è anche finito all’ospedale, o addirittura in galera. Qualcuno è morto, perfino. Abbiamo fatto un cumulo di cazzate, ok. Errori grossolani, ma anche viaggi interminabili e meravigliosi, fuori e dentro di noi. Ma sempre ridendo e scherzando. Una generazione di cazzari di talento, per dirla tutta.
Al mare, era il 1973 o giù di lì, nella Toscana dei cipressi che a Bolgheri van da San Guido in duplice filar, un tizio di una ventina d’anni, massimo venticinque, se ne uscì con la seguente frase, rivolto a noi coetanei stesi a prendere il sole: “Ma secondo voi, fra TRENT’ANNI, ci ricorderemo ancora che in questa canzone dei Genesis c’era uno che diceva: “But now, with a pin up gurrruuu, evvvry week”? Risate generali e breve flash nel futuro collettivo di noi, a cinquant’anni, che canticchiamo quella frase, magari guidando un taxi volante, al tramonto tra grattacieli altissimi.
Adesso siamo alla festa dei sessantenni, e il disco dei Genesis gira sullo sfondo, nell’indifferenza generale. Quella frase se la ricordano tutti, è ovvio. Il fatto è che non frega quasi più niente a nessuno. Per la verità qui frega poco di niente, a nessuno. Perché si fanno le feste? Il compleanno, d’accordo, è quasi un dovere. Ma le feste si sono sempre fatte, datemi retta, con la segreta speranza che diventino il palcoscenico di un incontro, dell’Incontro che cambierà la nostra vita. Magari non per sempre, ma per un bel po’ di tempo. O magari solo per una notte, di quelle da ricordare. E alle feste dei sessantenni c’è chi, ancora, in un ripostiglio ingombro e angusto dell’anima, lo pensa. Anche se gli orizzonti sono angusti come e più del ripostiglio, e il terribile “7” ci sta per ghermire.
Uomini e donne parlano stancamente fra loro, non piluccano più pizzette e panini ma degustano raffinati cibi orientali, innaffiati da vini di gran marca. Niente Coca Cola, anche se magari a molti non dispiacerebbe un bicchierozzo di bollicine zuccherose, alla faccia del salutismo.
Uomini e donne parlano tra loro ma non si “vedono”. I sorrisi e gli sguardi sono spenti, le risate sempre un po’ forzate, le battute sempre un po’ acide. I giudizi spietati, senz’appello. Basta un niente, però. Un argomento, un libro, un ricordo comune, condiviso dai tiratardi, gli irriducibili che non hanno ceduto al richiamo perverso del ritorno nell’isola-fortino della solitudine, e per dieci minuti, poi mezz’ora, poi un’ora, poi due, tutto si riaccende e torna come tanti, tanti anni fa.
Domani, chissà.