Sono fiera delle mie origini. Mia nonna Adelina era una contadina. Una donna di campagna: forte, rotondetta, semplice, viso rubicondo e sorriso stampato negli occhi affascinanti, esotici, con tante pagliuzze a esaltarne la luminosità.
Non sapeva scrivere. O almeno, non più di quel tanto. Quattro parole mensili con cui iniziava sempre le sue sgualcite lettere spedite alla sorella, scritte sul tavolo della cucina coi i gatti contenti di strusciarsi tra le gambe e di zampettare. Lettere unte di cibo, spiegazzate ai lati, che iniziavano così: «Cara sorella Lina, ti scrivo dall’Italia, per farti sapere che…».
Lina, quella famosa, ‘La zia d’America’. Quella che col marito Umberto aveva trovato la forza, forse, o la disperazione per ribellarsi alle convenzioni e andarsene dall’Italietta povera, post dopoguerra. Da quei paesini, non dimenticati da Dio, ma oscuri e oscurati dalle montagne. Perché, come raccontava la nonna «a quel tempo, al paese, chi non ci aveva un pezzo di terra, le vacche e quattro galline, moriva di fame».
Di lei ricordo le mani. A circumnavigarla, sostenendole il viso, perché era tanta. Mani gonfie di vita grama, pesanti, tagliuzzate dalla fatica dei lavori nei campi. Le mani sono inequivocabili per raccontare, tutto e di tutto, della vita e della morte. Di una persona.
Un po’ come la carta d’identità di un albero. Ogni anello, ogni solco, ogni tracciato resta. Mani ruvide come carta vetrata che pur non si scordavano, ogni giorno, di spazzolare i miei capelli. Un gesto d’amore silenzioso, quasi pudico, ma non invisibile. Sempre presente. Le parole non servivano per farsi udire o per dire, ben riposto come un segreto nel cuore, l’indicibile, tra qualche carezza furtiva e maldestra posta qua e là sul mio capo.
Mi piaceva, mi faceva allegria la mia nonna, forse un po’ buffa, d’ingenuità’ disarmante, tenera, a modo suo. Quando sono giù, torno a sedermi sulle sue gambe, il posto più rassicurante che esista, dinanzi alla nostra finestra, ‘la piccola vedetta’.
Ci divertivamo. Ci piaceva, più che osservare, ascoltare i ritmi e le stagioni non del nostro piccolo angusto mondo bucolico a parte, ma del mondo intero. Non so se dalla mia grand mère, così la soprannominavano, celebrandone le origini celtiche in un linguaggio simbolico e archetipico, insomma, non so se da lei ho ereditato lo Spirito e il carattere, la “delicatezza e fragilità dei forti, della Gente di Terra”, così ancora la chiamo.
La dignità… Sì! Quella l’ho ereditata. Ogni giorno me l’ha instillata, incisa sulla pelle, in profondità sin dentro le ossa. Ancor oggi mi rotolo, ci cammino a piedi nudi, scalza come da bambina, saltellando dentro le pozzanghere, imbrattandomi e riempiendomi dei colori, profumi e suoni dell’anima antica.
In quella terra il frutto non cade mai troppo lontano dall’albero. Non si allontana, non disperde le radici. Si muta, si cambia, ma le radici restano ben piantate in terra. E se, a tutt’oggi, i padroni continuano ancora a passarmi innanzi e a storcere il naso con espressione di superiorità mista a disgusto, dicendomi «brava bambina, ma devi stare zitta! Sei bella e schietta, ma ancora non hai imparato le regole del gioco», io dinanzi a loro non m’inchino. Oggi che sono più grande.
Ogni tanto ci ritorno al paese. Mi manca. Ho comprato il pezzo di terra che coltivavamo in mezzadria. La casa di mia nonna è sempre là. Diroccata, stanca, malaticcia, ma resiste. Non la venderò mai, perché Adelina non e’ morta. Non morirà mai. Ha lasciato talmente tanto che ancora mi scorre nelle vene, riempiendo gli istanti d’intensità e d’amore. E quando, istintivamente, alzo gli occhi al cielo dalla nostra finestra, io continuo a vederla. La vedo ancora aggrappata alla sua sedia a dondolo. Sorride alla vita.