La prima inquadratura è su un crocefisso appeso e su un gruppo di fanciulle che ascoltano il verbo di una severa istitutrice. Chiede la pia donna di schierarsi, da una parte quelle che solo nella fede in Dio cercheranno la salvezza, dall’altra quelle che, pur non essendo ancora pronte, si sforzeranno di trovarla. Solo una ragazza resta al centro, non schierata né da una parte né dall’altra: non voglio ammalarmi di evangelizzazione – risponde sprezzante all’istitutrice.
Nata nei primi del 1800 in un’America puritana e bigotta, Emily Dickinson trascorre la sua esistenza nella casa paterna, circondata dall’affetto severo del padre, da quello tenero della madre e dal legame fortissimo con il fratello e soprattutto con la sorella minore. Animo ribelle, femminista ante-litteram, la Dickinson sogna un rapporto paritetico tra uomo e donna, aborrisce in primo luogo l’ipocrisia e trova nella poesia – un lungo dialogo con se stessa, la natura, la vita e la morte – conforto e sfogo ai suoi fantasmi interiori. Il britannico Terence Davies, regista del film “La città della gioia” (2000) tratto dal libro di Edith Warthon, si cimenta in un biopic non semplice, cercando di raccontare un’esistenza non comune e poco indagata nei risvolti più intimi. E lo fa attraverso le pieghe del viso scarno di Emily, dei suoi occhi che da vivaci si fanno, col passare degli anni, sempre più liquidi, il sorriso che da ampio si raggrinzisce ai lati delle labbra sempre più strette. Un rigore morale che asciuga e secca il fisico mentre il fluido poetico si fa impetuoso, anche se non apprezzato dalla critica dell’epoca. Poche opere vengono pubblicate e l’editore talvolta ne modifica versi e punteggiatura, dedicando alla Dickinson un elzeviro sprezzante, dipingendola come una donna arida e insoddisfatta, che ha abdicato alla naturale missione di moglie e madre devota. A interpretare nella maturità Emily una magnifica Cynthia Nixon, nota per il suo ruolo in Sex and the City, storica femminista, gay, fiera oppositrice di Trump e candidata democratica alla carica di governatore dello Stato di New York. La fotografia è preziosa come una serie di quadri d’autore in una galleria d’arte. Soprattutto gli interni, nella luce soffusa della sera o in quella luminosa del mattino, gli argenti, i candelabri, i fiori un po’ fané che appassiscono nel vaso. E lei, Emily che invecchia nei suoi abiti rigorosamente bianchi, e che spia, dalla porta socchiusa nella camera in cui si è reclusa, il piccolo mondo di cui non si sente più parte. Un film bello, difficile nella sua intensità e nel mistero che la grande poetessa statunitense porterà con sé fino alla morte.
Nata nei primi del 1800 in un’America puritana e bigotta, Emily Dickinson trascorre la sua esistenza nella casa paterna, circondata dall’affetto severo del padre, da quello tenero della madre e dal legame fortissimo con il fratello e soprattutto con la sorella minore. Animo ribelle, femminista ante-litteram, la Dickinson sogna un rapporto paritetico tra uomo e donna, aborrisce in primo luogo l’ipocrisia e trova nella poesia – un lungo dialogo con se stessa, la natura, la vita e la morte – conforto e sfogo ai suoi fantasmi interiori. Il britannico Terence Davies, regista del film “La città della gioia” (2000) tratto dal libro di Edith Warthon, si cimenta in un biopic non semplice, cercando di raccontare un’esistenza non comune e poco indagata nei risvolti più intimi. E lo fa attraverso le pieghe del viso scarno di Emily, dei suoi occhi che da vivaci si fanno, col passare degli anni, sempre più liquidi, il sorriso che da ampio si raggrinzisce ai lati delle labbra sempre più strette. Un rigore morale che asciuga e secca il fisico mentre il fluido poetico si fa impetuoso, anche se non apprezzato dalla critica dell’epoca. Poche opere vengono pubblicate e l’editore talvolta ne modifica versi e punteggiatura, dedicando alla Dickinson un elzeviro sprezzante, dipingendola come una donna arida e insoddisfatta, che ha abdicato alla naturale missione di moglie e madre devota. A interpretare nella maturità Emily una magnifica Cynthia Nixon, nota per il suo ruolo in Sex and the City, storica femminista, gay, fiera oppositrice di Trump e candidata democratica alla carica di governatore dello Stato di New York. La fotografia è preziosa come una serie di quadri d’autore in una galleria d’arte. Soprattutto gli interni, nella luce soffusa della sera o in quella luminosa del mattino, gli argenti, i candelabri, i fiori un po’ fané che appassiscono nel vaso. E lei, Emily che invecchia nei suoi abiti rigorosamente bianchi, e che spia, dalla porta socchiusa nella camera in cui si è reclusa, il piccolo mondo di cui non si sente più parte. Un film bello, difficile nella sua intensità e nel mistero che la grande poetessa statunitense porterà con sé fino alla morte.
Tie the Strings to my Life, My Lord (Annoda i lacci alla mia vita, Signore):
Annoda i Lacci alla mia Vita, Signore,Poi, sarò pronta ad andare!Solo un’occhiata ai Cavalli -In fretta! Potrà bastare!…..Addio alla Vita che ho vissuto -E al Mondo che ho conosciuto -E Bacia le Colline, per me, basta una volta -Ora – sono pronta ad andare
A queit passion – regia di Terence Davies (Gran Bretagna-Belgio-Usa 2016)