I due fratelli lavavetri

Alcides Moreno aveva tenuto la mano destra chiusa, serrata così forte che i primi soccorritori e poi i medici non erano riusciti a fargliela aprire. Il viso era privo di tagli e ferite e questo gli dava l’aspetto di uno che aveva subito sì un forte shock ma che comunque se l’era cavata.
Alcides non riusciva a pensare ad altro, se non al giorno di quando il fratello Edgar lo aveva accompagnato nella ditta in cui lavorava. Non l’avrebbe mai potuto dimenticare. Fu due giorni dopo il congedo dal corpo dei marines, e non avendo trovato la cassa con i suoi abiti civili si presentò con la sua bella divisa e con i nastrini delle decorazioni. L’America sapeva accogliere con riconoscenza i suoi soldati; forse, pensarono i due fratelli, il suo aspetto avrebbe aggiunto qualcosa per fargli avere lo stesso lavoro di Alcides, più grande di lui di sette anni: il lavavetri dei grattacieli.
Era benvoluto da tutti, specie da quelli che avevano imparato da lui tutti i segreti di quel lavoro molto pericoloso. Anche Edgar era stato istruito dal fratello che gli diceva sempre: “Stammi vicino e guarda come mi muovo io, quando avrai imparato a lavorare al primo piano sarai in grado di farlo anche al settantesimo e oltre, si fanno sempre le stesse cose, poi tu sei un basco verde, l’altezza non ti può spaventare.”
Chi l’avrebbe detto a mamma Rosita e alla giovane vedova Rosario. Edgar e Rosario si erano sposati da poco, la loro piccola casa non era ancora pronta e così vivevano tutti, anche Alcides che era scapolo, nella vecchia casa della mamma. Rosario aspettava un bambino e diceva a tutte le amiche che il suo Edgar era un marito perfetto e sarebbe stato anche un buon padre.
Quella mattina, come sempre, avevano fatto colazione, tutti insieme, Rosita aveva riempito i due contenitori di fibra con il pranzo e ora serviva frittelle di mais e marmellata di arance. I due uomini finirono tutto, bevvero un abbondante caffè, baciarono le donne e uscirono. Una pianta di gelsomino ancora fiorito appoggiava i fiori profumati sul cancello del piccolo giardino, Edgar ne raccolse un rametto, ne aspirò il profumo profondamente e lo porse alla giovane e bella moglie che continuava a guardarlo con orgoglio mentre si accarezzava il pancione.
Non era stato giusto il Padreterno con la famiglia Moreno: si era portato via, in un soffio, il più caro dei due fratelli, il più buono, un futuro padre. Perché era toccato a uno e non all’altro? Mentre i medici continuavano a esplorarlo in attesa di radiografie e altri esami, lui era incurante del suo stato, cercava solo di ricordare cosa fosse successo.
Al primo scricchiolio, per una violenta folata di vento, si era disteso sulla base dell’impalcatura, mentre Edgar si era fatto cogliere dallo sgomento e non aveva eseguito quell’operazione che gli avrebbe potuto, forse, salvare la vita. Incrociarono sguardi smarriti e con un ultimo tentativo Alcides gli tese la mano destra e Edgar la afferrò con la sua sinistra. Durò pochi attimi quell’unione, il peso, il vento al quarantasettesimo piano, i guanti non calzati proprio per gustare meglio il pranzo di mamma Rosita, tutto coincise e, come in una scena al rallentatore, ci fu il distacco.
Edgar volò come un angelo e Alcides riprese a serrare la pedana che avrebbe ammortizzato l’urto, arrivata al suolo.
L’ululato delle sirene lo manteneva vigile e continuava a chiedersi perché fosse stato scelto lui, pensava che non fosse giusto, non riusciva a farsene una ragione, era confuso ancor più che addolorato e sofferente.
All’arrivo in ospedale c’era una folla di giornalisti e fotografi che non volevano perdersi il “miracolato”. Non potendo intervistare lui facevano capannelli intorno ai vigili del fuoco e ai medici che confermavano che una cosa così non l’avevano mai vista o sentita, troppo imponderabile. Mentre percorreva, sospinto, i lunghi corridoi, guardava le grandi lampade che gli venivano incontro come lampi, non voleva incrociare sguardi che gli avrebbero detto tutta la sua grande fortuna di essere vivo a differenza di Edgar suo fratello più piccolo.
Gli sguardi di Rosario e di Rosita non poté ignorarli però, erano struggenti, e sentì che non imploravano il suo nome ma quello del fratello morto. Non ne fu colpito, a una mamma e a una moglie il dolore della perdita del proprio caro è superiore a qualunque sentimento pure di gioia insperata, come la sopravvivenza dell’altro.
Lui si sentiva di troppo in quel frangente della vita, voleva morire pure lui. Ci aveva provato a salvare Edgar, rischiando che trascinasse anche lui nel vuoto, il braccio destro era indolenzito per il peso sostenuto per poco e anche la mano gli doleva ancora tanto. Stava ancora sulla barella e aveva mamma e Rosario intorno. Rosita aveva preso ad accarezzargli quel pugno serrato con la dolcezza di una mamma che stava capendo il dramma.
Quando la mano si aprì completamente, sul palmo insanguinato, le donne riconobbero l’anello dei marines, con le inziali E.M. Glielo aveva lasciato Edgar, forse volutamente, scivolando verso la morte, era toccato a lui, sopravvissuto, riportarlo a casa.
Edgar Junior era un bellissimo bambino che non si staccava mai dal seno della sua mamma. La nonna aveva un gran da fare tra biberon e pannolini. Alcides girava per casa mettendo in ordine tutto, manteneva pulito il giardino e lavava quasi ogni giorno la vecchia Ford con la quale lui e Edgard avevano imparato a guidare e a scorrazzare.
Aveva sistemato un armadio, nel sottoscala, dove c’erano oggetti della vita militare del fratello:foto, medaglie e una grossa pistola avuta in dotazione, una Beretta M9 e molte munizioni calibro 9 parabellum. La pistola e le munizioni le mise in una cassetta di metallo molto robusta, chiusa da un lucchetto e bloccata con una catena all’armadio. La chiave di quel lucchetto la portava legata a una catenina che teneva spesso tra le dita.
Aveva ripreso anche a cucinare, sua vera passione, e poi teneva mani e cervello occupato. Ormai Consuelo aveva abbandonato l’idea di una casa propria, l’aveva restituita al venditore che, senza scrupoli, lucrò quasi cinquemila dollari della caparra.
La ditta aveva dato una buona liquidazione per il fratello morto e tutta la somma fu vincolata alla crescita di Edgar Junior. Anche a lui avevano riconosciuto una somma per i danni seguiti all’incidente. La stava consumando insieme con l’anno che il medico e la psicanalista avevano ritenuto di concedergli per farlo rimettere in forma. Chi lo conosceva e lo frequentava non riusciva a trovare miglioramenti al suo stato psichico. Aveva smesso di allenarsi nella palestra dell’azienda, cosa che era ritenuta importante per l’eventuale reintegro nel ruolo che ricopriva prima dell’incidente.
Scendeva sempre più spesso nel sottoscala. Non gli mancava mai una bottiglia. Apriva l’armadio di Edgar, prendeva la cassetta, si sedeva e la poggiava sulle gambe. Rimaneva a guardarla a lungo. Poi aveva cominciato ad aprirla con quella piccola chiave che portava sempre al collo. Smontava e ripuliva meticolosamente pistola, pallottole e caricatore. Ogni volta era sempre più agitato. Una notte dopo aver fatto la solita pulizia accurata, la poggiò alla tempia, bum! fece con la bocca e simulò il rinculo. Rimise tutto a posto.
Di giorno aveva ripreso ad andare in ditta dove lo avevano assegnato ai nuovi arrivi come istruttore. Si guardava intorno incredulo e scopriva che Edgar non c’era e si rabbuiava. Anche a casa si erano accorte che non riusciva a riprendere l’equilibrio e dopo tanti tentativi si erano disinteressate a lui.
Era arrivato anche il licenziamento e gli ultimi dollari stavano finendo. Racimolò gli spiccioli e comprò una bottiglia della sua marca. Quando entrò in casa, ne aveva bevuta una buona metà e all’arrivo nel sottoscala era rimasto solo il vetro. La posò per terra e compì i soliti gesti. Tirò fuori la vecchia pistola. Stavolta sparò. Bum! Il rinculo gli fece saltare l’arma dalla mano.

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