In una cella lunga tre metri e larga uno e mezzo ci sono sei uomini. Shukri ha cinquant’anni, le costole rotte, il corpo pieno di graffi, la mandibola contusa. “Ho quattro figli…” sussurra al suo compagno, “tre sono con i rivoltosi. Il più giovane ha sedici anni. È nella cella accanto”.
Al primo urlo i sei uomini si accalcano per sbirciare attraverso le feritoie della porta. Ricomincia la tortura. Shukri prende la mano del compagno e la stringe forte, quasi a fargli male. “È lui, è mio figlio”, geme.
Le urla del ragazzo spezzano il silenzio, chiede aiuto, ma nessuno può darglielo. Shukri immagina le bastonate a sangue, le scosse elettriche. Disperato comincia a battere la testa contro il muro. “Allah, aiutalo” invoca. Più alte sono le grida, più forte batte la testa. Poi, il silenzio. È finita per oggi; domani sarà un altro lungo giorno di dolore.
Mesi dopo Shukri lascia la prigione. Nei suoi occhi non ci sono lacrime, ma il ricordo della luce spezzata dalle feritoie, del sangue secco sulla camicia, il suo sguardo impietrito dal dolore nell’ultimo abbraccio al figlio che va a morire. Un giorno, sul giornale, Shukri legge il nome di suo figlio nella lista dei caduti. Morto sotto tortura, c’è scritto accanto al nome. “Credetemi”, dice Shukri agli amici, “non ho pianto leggendo il suo nome. Piangevo mentre soffriva e sentivo i suoi rauchi lamenti. La morte non è la peggiore delle cose che il destino ci possa riservare”.
Questo non è un incubo notturno. È il racconto dell’ennesima storia di tortura accaduta in Siria.