Ho fatto vignette satiriche per anni, sia quelle che accompagnavano gli scritti del mio socio, sia quelle individuali che rappresentavano il mio punto di vista di cittadina. Mi divertivo moltissimo: ridevo nel prepararle, colpendo con maggior gusto gli avversari politici, ma non risparmiando neppure gli appartenenti alla mia area ideologica, ove ne ravvisassi il caso.
Poi gli accidenti della vita mi hanno tolto molto, e in questo molto c’è anche quella spensieratezza acuminata che guidava la mia attitudine alla satira. Mi è capitato, in seguito, di vignettare sporadicamente, ad esempio quando una (dis)avventura socio-politica colpiva le mie emozioni, oppure quando un personaggio (non necessariamente nostrano) mi sembrava già disegnato in caricatura.
Ultimamente, le vicende e i protagonisti della scena politica italiana mi stanno facendo nuovamente sentire l’urgenza di vignettare. Il problema è che non mi diverto più. Lo faccio perché sento di doverlo fare, perché pur sapendo argomentare, suffragata da una solida preparazione storico-culturale (chiedo perdono se appaio supponente: non lo sono, credetemi), la preoccupazione, addirittura la disperazione (come ha capito perfettamente la mia Direttora Giovanna Libera Nuvoletti) che provo in questa contingenza politico-sociale (nella quale ravviso déjà vu totalitaristici e razzistici inquietanti, oltre una deriva verso un abisso di ignoranza arrogante e incompetenza devastante) questa disperazione, dicevo, mi spinge a produrre messaggi di immediata comprensione, diretti, iconici, immediati: le vignette.
Chi mi conosce sa (e quanto ho detto dimostra ancora una volta) che l’uso della parola mi spinge al suo abuso: sono graforroica e me ne scuso. E’ per questo che lancio nel mare magnum del web questi piccoli messaggi di pixel in bottiglia: sono il grido muto, il ghigno ghiacciato della mia disperazione.