Roma caput mundi. E a Roma si va perché è importante, perché offre lavoro. Dai piccoli centri, dalle piccole province si parte la mattina presto, prestissimo per arrivare in tempo all’apertura degli uffici sparsi nella città. Il viaggio non finisce mai, c’è la metropolitana da prendere appena si arriva a Termini, o un autobus: tutt’e due stracolmi. Faccio il pendolare, sono uno di quelli che si sveglia all’alba, fa colazione di corsa, scappa di casa con il cappuccino che balla nello stomaco e sale su un treno delle Ferrovie dello Stato. Se ci riesce. Se ci riesce. Ogni mattina, con il mio abbonamento in tasca arrivo in stazione, mi precipito al binario e trovo una folla impaziente che assalta i vagoni. C’è una ressa inverosimile davanti alle porte spalancate. Non è un treno di vacanza, è un treno di lavoratori che va a Roma. Pieno zeppo, ci si spinge per salire, una mano sul portafoglio, un gomito largo, la voce grossa al venerdì. Quando non se ne può più di una settimana fatta di viaggi così. Gli altri giorni una cupa rassegnazione è stampata sui visi di tutti noi, appiccicati, spremuti, il fiato e l’alito di chissà chi sulla nuca, in pieno viso. Un’ora in piedi, immobili, se devi soffiarti il naso devi chiedere scusa, se muovi un piede ne pesti un altro. Fa caldo e si suda in ogni stagione, c’è un odore stantio, l’afrore del sudore, della fatica che non è proprio buono. I più svelti riescono a sedersi ma scompaiono inghiottiti dal muro di tutti gli altri che stanno in piedi, sballottati e spintonati a ogni fermata, perché a ogni fermata un’altra orda attende famelica e pretende di trovare venti centimetri di spazio in più dove non ce n’è. Qualcuno, disperato, che non ce la fa, non mette nemmeno il piede sul predellino, smonta e si abbandona alla tristezza: comincia da qui, da un marciapiede grigio di binario, mentre il treno si allontana, il mancato diritto al lavoro. Chi è riuscito, con impresa titanica, a partire, arriva a destinazione in stato confusionale. Dal treno regionale io scendo a Termini barcollante ogni santa mattina. Ma in quel carro bestiame, dove c’è chi sviene o si sente male, non si respira proprio, un’aria contaminata ci aleggia dentro, e mai, dico mai, si deve aver bisogno della toilette. Per arrivarci occorrerebbe una levitazione, il librarsi oltre le traversie umane, e anche quando si raggiungesse il bagno e non fosse occupato, i cinque sensi stramazzerebbero di disgusto per la sporcizia. Bisogna andare al bagno appena prima di uscire di casa, non bere acqua, avere una vescica di ferro. E altro, dato che è mattina. Ci chiedono tanto in questo paese, ci chiedono tutta la nostra vita dandoci in cambio scampoli. Un mese, vorrei che i dirigenti delle Ferrovie dello Stato fossero pendolari sul mio treno per un mese. Capirebbero che noi siamo inutilmente eroi e vittime in una guerra ingiusta.
“Questi racconti fanno parte di una serie scritta per L’Unità diversi anni fa. La Rivista Intelligente ha deciso di ripubblicarli per la loro valenza tragicamente attuale oggi, un tempo di devastazione, menefreghismo e di violenze sulle donne.” V.Viganò