Si chiamava Jacques. Era Mio zio. Portava un cappello a tesa stretta. Un soprabito che gli arrivava a stento alle ginocchia. Pantaloni troppo corti. Non girava mai senza l’ombrello e ogni tanto scompariva in sella alla sua bici, lasciandosi alle spalle un filo azzurro di fumo di pipa.
Gli zii senza moglie sono fatti così. Sono i tuoi preferiti, ma non capisci mai che vita facciano. Non li vedi per mesi e all’improvviso li ritrovi lì in salotto, pronti a riprendere, come se niente fosse, una conversazione che non ricordi più.
Naturalmente, Jacques Tati non era mio zio. Ma avrebbe potuto esserlo. Era lo zio che tutti i bambini sognano: stralunato, saturnino, sempre pronto a giocare con te, a prometterti regali che non farà mai. Così differente dal papà, per cui la cosa più importante è il lavoro. Tati era una bicicletta fatta della materia di cui sono fatti i sogni, un ombrello da cui farsi trascinare nella pioggia, una casa dalle pareti trasparenti. I suoi film (Jour de fête, Les vacances de Monsieur Hulot, Mon Oncle, Playtime, Trafic) sono giostre, commedie dell’arte, quadri surrealisti, pièce apocrife di Beckett trasportate in uno studio cinematografico. Di essi, questo ex nobile russo di antica stirpe militare, è demiurgo quasi totale: sceneggiatore, regista, attore, montatore, scenografo.
Per Tati, tutto è comica finale. Il suo cinema è la negazione del cinema. Rende vano il principio di causa ed effetto, lo scorrere del tempo, la permanenza dei protagonisti. La scena è liquida, la trama non esiste o è frantumata in lenti caleidoscopiche, le azioni sono senza scopo e i dialoghi sono soltanto scambi di sonorità.
Diceva Rimbaud che “bisogna essere assolutamente moderni”. Tati lo era. Moderno e, quindi, sempre inattuale. Perché cosa c’è di più moderno e inattuale di un uomo col soprabito, la pipa e in bicicletta?
Jacques Tatischeff (in arte Tati)
Le Pecq, 9 ottobre 1907 – Parigi, 5 novembre 1982