RAINER MARIA RILKE, a cura di Ulderico Pomarici

«E lì fu spazio, negli spazi che lenti si svuotavano;

su di te, sulle case, sugli alberi,

sui monti fu il vuoto». (Capri, 5-9 agosto 1907) 

Ho scelto tre semplici versi, per cominciare a parlare delle 42 poesie di Rilke che Ulderico Pomarici ha deciso di tradurre. Li ho scelti perché sono l’esempio di come, chi poeta è, ha il potere di tradurre poesia – perché solo a chi è già poeta è concesso di trasporre poesia in poesia. Gli altri traduttori fanno cultura, compito utile quanto solenne, ma non inebriante. Ordinano parole con buon gusto.

Nella sua premessa, Ulderico cita, come è d’altronde opportuno, Walter Benjamin, quando afferma che il compito del traduttore consiste “nel trovare quell’atteggiamento verso la lingua in cui si traduce che possa ridestare, in essa, l’eco dell’originale”. Solo una eco. Sante parole. E Ulderico chiosa “il senso delle parole scorre via tra le dita e non si arresta mai” – è vero, ma è altrettanto vero che non si finisce mai di tradurre, e quindi l’eco non si può mai mettere a tacere, e ritorna, ogni volta con lievi, definitive modificazioni. Saper tradurre poesia significa poter trasmettere al lettore questo infinito scorrimento, che rende a sua volta poesia qualcosa che non è più solo traduzione, svolgendola in un ventaglio di significati, che negli abissi della mente trovano i loro spazi peculiari.

E ora parlo direttamente a Ulderico, perché anch’io traduco poesia, e ne conosco la fatica e le vette.

Tu, caro amico, nonostante la prudenza della tua premessa, la musicalità ce l’hai messa eccome, una musicalità piana e molto italiana, cantante quanto rispettosa. Conosco la tentazione che viene a noi traduttori, di riportare nel mondo “nostro” la musica e anche la sintesi che punteggiano il testo. Ogni lingua ha la sua musica, e le sue capacità di sintesi. Tu con la lingua tedesca sei stato rispettoso. Ma, ciononostante, è in una limpida lingua dolce e sonante, nostra – con una sintesi delicata e precisa – che hai trasposto il canto di Rilke – così, con questo trucco, mi ci hai fatta entrare a piedi uniti. Come fosse nell’originale. Ho potuto nuotarci dentro, sorbirla, farla parte della mia esperienza, come deve accadere a ogni lettore. Tu sei stato capace di mostrare il poeta tedesco a chi, come me, non ne conosce la lingua. Grazie, grazie.

«Mia oscurità, mia oscurità, sono qui con te, e ogni cosa al di fuori trascorre!»

E l’ultima (val-mont, probabilmente metà dicembre 1926), ultima annotazione nell’ultimo diario:

«…Rinuncia. Non è come la malattia

al tempo dell’infanzia. Rinvio.

Pretesto per diventare grandi.

Richiami e sussurri dappertutto.

Non mescolare in questo

quel che un tempo ti stupiva».

Qui abbiamo tutto, la perdita, l’essenza, l’infinitezza ambigua della parola poetica. Il canto che arriva fin dentro parti di noi che nemmeno sapevamo di avere, e d’improvviso riconosciamo.

Sai, Ulderico, a volte anche noi traduttori siamo api dell’invisibile – nei tuoi voli su Rilke ne hai raccolto il miele, lo hai travasato per noi con immensa pazienza e lungo coraggio.

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