Camminare fa bene alla salute. Per la circolazione senz’altro e anche per le ossa. Dicono i medici che abbia pure un effetto benefico sul colesterolo. Molto meno giova al senso estetico di chi, come me, macina chilometri per la salute e, volontariamente priva di automobile, frequenta sistematicamente i mezzi pubblici. Dunque, come non accorgersi e non essere feriti nei neuroni del buon gusto dalla degenerazione del jeans, cioè dell’indumento che accompagna la vita di 70 persone su cento? E non è un calcolo a casaccio. Morto e sepolto lo storico 5 tasche, tessuto denim, gamba a sigaretta e vita al posto suo, l’escalation del jeans ”stuprato” non conosce barriere né frontiere, né caste, né anagrafe. Primo step la mutazione genetica della forma, che strega le giovani generazioni. Chi, se non loro, potrebbero girare ostentando con illegittimo orgoglio il jeans ”bracalone”, col cavallo all’altezza del ginocchio? Oppure quello adorato dalle ragazzine ciccione o informi, in età di trasformazione, appeso al pube, che mette -ahinoi- in evidenza sederoni cellulitici, fianchi opimi e panciotte venusiane? Chi se non le longilinee liceali ed universitarie dalle stature ragguardevoli e dai corpicini filiformi potrebbe indossare con legittima sfrontatezza il ”jegging” (orribile neologismo partorito dalla fusione di jeans e legging) e da me molto più prosaicamente ribattezzato “l’inghiottito”? E, per la serie facciamo del male ad un oggetto di culto dalla genesi popolare e dalla storia ultracentenaria, spendiamo una parola non sulla forma, ma sugli esperimenti che nemmeno Mengele avrebbe osato sul tessuto denim.
Ricetta numero 1: prendi il denim e “frullalo” in gigantesche lavatrici utilizzando al posto del detersivo la pietra pomice. Nome tecnico “abrasione”. Finalità: ottenere un aspetto vintage, comunque usato.
Ricetta numero 2: nelle succitate lavatrici industriali alla pomice aggiungi il cloro. Nome tecnico ”acid wash”. Scopo: dare al denim chiazze sbiancate a forte contrasto, da piazzare per lo più su cosce, lato B e ginocchia.
Ricetta numero 3: prenditela con il denim, strappalo, sbrindellalo, tagliuzzalo perché assuma un’aria lacero-contusa più consona a un reduce dalla guerra in Vietnam che a chi frequenta una scuola e magari gode di molti privilegi.
Last but not least, spendiamo due parole sulla degenerazione lussuosa del jeans, dedicata a facoltose signore dai trenta in su, ovviamente jeans addicted e banalmente succubi delle “griffes” che, sgamando il business, vendono per 350/500 euro il simbolo della contestazione giovanile del ‘68 e del movimento hippy, artefatto da colate di Swarovsky, decorato di gemme e paillettes su tasche e cuciture. E – perché no? – si permettono persino, come sommo sberleffo, un’ingiuriosa tonalità di rosa “hello kitty”. Le vie del jeans sono infinite, come quelle del Signore.