Il palcoscenico è surreale: una luce azzurrina permea ogni cosa, il letto, i tavolini, le sedie, avvolge come una spuma le tende gonfie alle finestre. Il chiarore, soffuso all’inizio, lambisce le quattro persone presenti nella camera: un lui e una lei avvinghiati sul talamo, una donna che sferruzza seduta dietro, un uomo in piedi, poggiato al muro – l’unico a non vestire panni di colore azzurro. I due amanti si baciano e si strofinano, la donna canta, gli altri personaggi sono immobili. Nell’aria c’è odore di sensualità, di complicità, di tradimento.
Scritto da Georges Simenon nel ’64, pubblicato da Adelphi nel 2008, “La camera azzurra” è un romanzo tipicamente simenoniano: le atmosfere sono quelle cupe e ottuse della piccola provincia francese, i protagonisti sono pedine nelle mani di un destino “cinico e baro” che si sono costruiti da soli. La vicenda si sviluppa lenta all’inizio, si spiegano i rapporti incrociati e, una volta che tutti i tasselli sembrano andati al loro posto, esplode in un finale imprevisto e imprevedibile.
La regista Serena Sinigaglia ne ricava una pièce teatrale, un atto unico, ripercorrendo le pagine del libro: le quattro persone in scena danno sfogo a tutti i loro sentimenti – lussuria, gelosia, rabbia, frustrazione. E lentamente si scopre l’identità dell’uomo che resta in piedi, sempre, come a giudicare dall’alto gli altri tre. A chi conosce bene l’opera infinita dell’autore belga, torna in mente un altro romanzo, forse il più bello tra quelli che non hanno come protagonista Maigret, “Lettera al mio giudice” (1951) in cui il narratore scrive nell’incipit: “Caro giudice, vorrei tanto che un uomo, un uomo solo mi capisse. E desidererei che quell’uomo fosse lei”. Torna, appunto, il legame controverso e tormentato tra chi giudica e chi è giudicato, nel cui confronto perdono tutti, nessuno escluso.
Molto bravi gli attori, splendidi gli arredi, seducenti le musiche di stacco.
La camera azzurra – Teatro Carcano – Milano – regia di Serena Sinigaglia