A dar credito alle voci, Salvini non avrebbe una gran fretta di andare al voto; sono propenso a crederci. A parte che governare oggi non pare accenda di entusiasmo nessuno, sembra fondato il motivo che indurrebbe il leader leghista a vederla così. E’ convinto – dicono – che sia più conveniente stare all’opposizione anziché dal governo per affrontare i prossimi voti regionali: non solo quelli di Emilia e Calabria, ormai alle porte, ma anche quelli del turno successivo, quando voteranno sei regioni: Veneto, Liguria, Toscana, Marche, Campania, Puglia.
Alt! Come, solo sei? La primavera 2020 è la scadenza ordinaria per il rinnovo dei consigli delle quindici regioni a statuto ordinario; e ai nastri di partenza se ne presentano solo sei?!? Dal 1970, quando gli italiani sono stati chiamati per la prima volta a questo tipo di elezione, negli anni che terminavano con lo zero o con il cinque le quindici regioni “ordinarie” si sono rinnovate tutte insieme, disciplinate e – anche – contente; perché se ciascuno votava per la sua, il farlo tutti lo stesso giorno ricordava e sottolineava che, ancorché giunta ultima, quella regionale è una delle istituzioni fondamentali del nostro “Stato Democratico”.
E’ andata avanti così, regolarmente, per ben otto volte, fino al 2005. Poi, non è successo più; sono cominciate le eliminazioni, come quando nelle corse al trotto i cavalli “rompono” perdono cioè il passo giusto. Nel 2010, ancora ancora, il campo si presentava accettabile: erano 13, ne mancavano 2 (Abruzzi e Molise) non delle più grandi. Ma già nel 2015, una tristezza! Al via addirittura una minoranza, 7 su 15: e alla prossima, nel 2020, saranno 6, perché una – l’Umbria – si è ritirata prima di aver completato la corsa precedente.
Lombardia e Lazio, le due regioni più popolose – insieme più di un quarto degli italiani – nel 2013 e nel 2018 hanno rinnovato i loro consigli in coincidenza con il rinnovo del Parlamento nazionale; gli specifici temi regionali non hanno trovato molto spazio in una campagna politica generale, il che non ha certo accresciuto l’attenzione e l’interesse dei cittadini per l’istituzione.
Nel corrente 2019 ci sono stati voti regionali per ben quattro volte: a febbraio (Abruzzi) a marzo (Basilicata) a maggio (Piemonte) a ottobre (Umbria). Il prossimo gennaio voteranno Emilia e Calabria. Nella fibrillante situazione politica italiana, a ciascuno di questi appuntamenti è stato dato un grande rilievo, che ha influito in maniera non trascurabile sulle vicende nazionali. La “campagna elettorale continua” non è solo una propensione soggettiva di qualche leader populista, è anche un vincolo derivante da queste scadenze oggettive; e gli italiani sperimentano sulla propria pelle quanto ciò costi in termini di inconcludenza, demagogia, inasprimento delle tensioni e del clima civile del Paese.
Tutto questo come, perché è accaduto? Perché, a un certo punto, una regione, poi un’altra e un’altra ancora, fino a diventare la maggioranza, non si sono più presentate all’appuntamento regolare e si sono messe a correre da sole? Non c’è stata, a nessun livello, in nessuna sede, una decisione politica o di legge; né l’impedimento è venuto da eventi naturali.
Atti giudiziari: all’origine di ogni disallineamento c’è un fatto giudiziario. Non è certo mia intenzione sindacarli; ma è doveroso constatare che, concentrati in un periodo relativamente breve (una dozzina d’anni) questi atti giudiziari – ciascuno dei quali ha le sue motivazioni, le sue procedure, i suoi sviluppi – nel loro insieme hanno prodotto mutamenti significativi nel funzionamento del nostro sistema istituzionale e politico.
Ne è risultato alterato il rapporto fra l’istituto regionale e gli elettori; sono cambiate, infatti le circostanze e le occasioni in cui i cittadini sono stati chiamati a giudicare e rinnovare questa articolazione dello Stato. Ne sono derivate, anche, torsioni nel modo di esercitare e di percepire l’azione politica; tanto che, oggi, è del tutto plausibile che Salvini (e, come lui, gli altri) prendano decisioni che influiscono sulla durata del governo nazionale o sul momento in cui gli italiani saranno chiamati a eleggere il nuovo Parlamento in base ai turni di consultazioni regionali che, ormai, fluiscono ininterrottamente lungo la penisola.
Non c’è da sorprendersi se gli impegni della propaganda prendono regolarmente il sopravvento sugli obblighi del governare. E tutto è cominciato con l’apertura di un fascicolo, di un’indagine, con l’invio di un avviso di garanzia. Come si vede, il buon ordine e la stabilità delle istituzioni democratiche non dipendono solo dalle decisioni del Parlamento o dagli esiti dei referendum. C’è da riflettere. Non vi pare?