Era il 17 giugno 1970. Sì, la partita Italia Germania, quella partita lì. E, vi avverto, il mio ricordo è strano, fuori posto – o forse no. Erano passati 5 mesi e mezzo dal suicidio di mia madre, la mia fine. Mi trovavo infilata in mezzo a un mucchio di amici che, sdraiati a pancia in sotto sopra un enorme lettone, appoggiati sui gomiti, contemplavano un grosso TV in bianco e nero. Sentivo confusamente, ma a fondo, che le ragazze e i ragazzi che mi attorniavano e stringevano, il tifo lo facevano non solo per la nostra squadra, ma anche per il mucchietto di ghiaccio steccuto e terrorizzato, sprofondato nel nulla, che ero io. Io, andata via, io dissociata (il termine tecnico è esatto), io senza parole né lacrime. Io, il nulla.
Allora, nulla sapevo di autismo a alta efficienza, anche se conoscevo certe particolarità del mio cervello, che lo rendono sensibile alle forme nello spazio. Alla fin fine a me risultava solo di essere figlia di una intelligentissima, bellissima pazza suicida, e quindi pazza anch’io: non avevo altra definizione. Ma quel giorno di giugno e durante quella partita scoprii che la mia mente strampalata mi offriva la capacità di leggere là, nel movimento sul campo che scorreva davanti ai miei occhi, ordine, bellezza, e le somme geometrie del ritmo che dentro me si riflettevano e trovavano eco.
Boninsegna, prima. L’andamento dei tempi supplementari aveva la forma della mia lotta per tornare a vivere, ricominciare a parlare, piangere, forse mangiare persino. I meravigliosi gesti atletici dei nostri calciatori mi carezzavano, mi sospingevano – riuscivo a guardare, a vedere, a leggere i gol – nella mia mente nera. Era un alternarsi di gioia, scoramento, coraggio, speranza e amore a ondate – Burgnich, Riva, Rivera. Che bella partita – giocavo persino io. Sentii l’esistenza degli altri intorno a me – le loro sensazioni tra gli interstizi del mio muro – fui con loro, con i miei coetanei che tifavano Italia e Giovanna. Provai emozioni, persino sentimenti, roba semplice, nulla di eletto – ma con quale grazia presero il posto di ciò che non posso nominare, ne mai nominerò, anche se lo conosco bene. Laggiù entravano luce, colore, voci. Gol!