25$ COUNTRYROAD MOTEL

Marion era sdraiata sul letto e giocava con l’accendino in mano, lui stava sotto la doccia. Dalla camera poteva sentire distintamente l’acqua che scorreva, per la verità faceva un gran fracasso.
Fuori dalla finestra intravedeva, attraverso le tendine sottili a fiori stile anni ’60, la terra desolata e grigia, colore della cenere, sembrava ci fosse stata poco prima un’eruzione vulcanica, ma lì, in quella zona, davvero non c’erano vulcani, era tutto piatto, deserto, vicino al deserto. Non quello di dune di sabbia dorata che si vede nelle fotografie delle riviste, no, questo era spento e morto, con i cespugli bassi e i rovi e gli arbusti secchi e le pietre. Ma dov’era quell’altro deserto, si chiedeva. Forse in Africa?, le pareva di ricordare da qualche vecchia nozione di scuola. Quando c’era andata. Aveva smesso che aveva sì e no quindici anni e si era messa a fare la commessa nella grocery di sua zia, in un villaggio del sud di poco più di tremila anime, non un accidenti che succedesse, nemmeno il sabato. Non c’era mai stata altrove, solo quello squallido posto triste conoscevano i suoi scarsi vent’anni.
“A che ora parte il treno?” gli chiese non appena non sentì più l’acqua scorrere così fastidiosamente.
“Come?” le urlò lui dal bagno con l’accento scortese e infastidito di sempre.
Se lo immaginava, con l’asciugamano premuto sulla faccia, strofinarsi la pelle del collo. Le faceva schifo. Lo vedeva sempre fare da suo padre, quel gesto. E lì la pelle poi diventava rossa, che già lo era di suo, per la birra in corpo e la sua origine irlandese.
“Che hai detto?!” Lui urlò di nuovo nella sua direzione, questa volta aprendo la porta del bagno.
“Il treno”, ripeté lei alzando la voce. “A che ora parte?”
“Ah. Alle sette.”
L’accendino le cadde sul lenzuolo. Era dello stesso colore, rosso, sul letto sfatto di una notte da 25 dollari più tasse, più una cassa di birra, 40 dollari o poco più. Cheap night la chiamavano.
Era una vecchia catapecchia sulla strada principale, assi di legno verniciate e riverniciate di bianco, scrostate, la moquette della camera di un colore non più definito, doveva essere stato blu, grigio-blu, un tempo, ora era macchiata e scolorita dal sole che filtrava dalle finestre, qui il sole picchia d’estate, e fa caldo, molto caldo.
Al soffitto penzolava il sensore di plastica del sistema antincendio che lui aveva divelto la sera prima per potersi fumare in santa pace le sue dannate sigarette. Le cicche stavano sparpagliate intorno al letto sulla moquette, le aveva lanciate una per una stando sdraiato dopo averle spente schiacciandole sul ripiano del comodino, dove era rimasta una macchia scura. Come una brutta malattia del legno, come la lebbra o la rogna. E la puzza di fumo aveva impregnato la stanza.
“Quanto starai via?“ gli chiese sapendo che non avrebbe ricevuto risposta, non l’avrebbe neanche sentita.
Finalmente lui uscì dal bagno, andava di corsa adesso, dopo esserci stato più di mezz’ora là dentro, aveva fretta, voleva andarsene, e così lei non avrebbe avuto neppure il tempo di lavarsi.
“Sbrigati”, le aveva detto infatti, senza guardarla in faccia, infilandosi i pantaloni.
Succedeva sempre così, non poteva farci niente. Marion piegò la testa di lato e fece una smorfia con la faccia che era ancora quella di una ragazzina di vent’anni, una faccia che qualcuno avrebbe potuto definire pulita, se non fosse stato per un’espressione agra che la faceva sembrare più vecchia. Le espressioni amare chissà perché ce le dovrebbero avere solo i vecchi.
Si alzò dal letto e andò in bagno, si sedette sul wc per urinare e rimase per qualche minuto lì seduta a osservare le maioliche malmesse sopra al lavandino di fronte. Si sciacquò sotto bagnando per terra, in piedi davanti al lavandino, sollevando la camicia da notte corta e trasparente che imitava i più costosi baby doll, comprata il giorno prima da Walmart a 12 dollari insieme alle birre. Era sintetica e le si appiccicava alle cosce. Non c’era un granché di spazio per muoversi.
Uscì dal bagno e si infilò i jeans stretti sulla pelle nuda, facendo un po’ di fatica per tirarseli su.
“Allora quando torni?” gli richiese. Sentiva la propria voce petulante e si detestava.
“Non lo so, lo sai che non lo so”. Stavolta si girò a guardarla e si avvicinò, quasi con tenerezza e l’intenzione di darle anche un bacio, poi ci ripensò e si tirò indietro.
. “Allora non sai quando ritorni?” insistette.
Lui non le rispose e tornò a rimettere le poche cose che aveva nel borsone, una camicia, la schiuma da barba. Aveva trent’anni e piccole condanne sulle spalle, roba da poco, una per ubriachezza, un tentato furto in un general store, l’assicurazione dell’auto non pagata, un ritardo nella consegna di un furgoncino a noleggio. Sognava di fare un grosso colpo però, uno di quelli vecchio stile, da film anni ’60, come la camera del motel. Suo padre ci era nato in quegli anni ed era un alcolizzato, aveva passato la vita da disoccupato, col sussidio e qualche lavoretto ogni tanto da manovale per la manutenzione della ferrovia. Sua madre aveva fatto la cassiera nei piccoli stores del villaggio senza mai guadagnare abbastanza per quei tre figli non voluti, ed era morta da tre anni per un tumore al fegato. Quando ci pensava gli veniva da ridere, invece di morire suo padre, con tutto l’alcool che si metteva in corpo, era morta lei, come se quel bastardo le avesse contagiato un male che avrebbe dovuto essere suo. Però anche lei beveva, birra e whisky a volte.
“Hai fatto il test?” le chiese senza nemmeno girarsi, continuando a trafficare con le sue cose. Lei scosse la testa, facendo cenno di no.
“Sei incinta?”. Tirò fuori dal portafogli un biglietto da 20 dollari e glielo porse. “Tieni, prendi questi”.
Marion guardò la banconota e gliela sfilò dalla mano. “Forse”, rispose alzando una spalla. Andò verso di lui cercando di abbracciarlo da dietro. Appoggiò il viso sulla sua schiena.
“Dai, aspetta un altro po’, c’è ancora tempo.”
Lui si arrese e si rimise a letto svogliato, senza spogliarsi.
Dopo poco si addormentò, con la camicia sbottonata fuori dai calzoni, la cintura slacciata, l’accendino rosso sul lenzuolo. Russava.
Marion restò in piedi di fianco a lui. No, non le piaceva proprio, sì, le faceva schifo. La pelle liscia sulla pancia scoperta le faceva senso, era viscida. Neanche i suoi capelli corti castano chiari le andavano a genio. Tutto sommato, chiunque altro l’avrebbe considerato un bel ragazzo.
Marion si rivestì, rimise i jeans stretti e la maglia blu sopra, senza biancheria, sui seni piccoli nudi e sodi da adolescente. Passò la mano tra i capelli lunghi, biondi e intrecciati. Non le andava adesso di pettinarsi. Si sedette accoccolata sul letto accanto a lui che continuava a russare. Aveva il sonno molto pesante, specie alle sei del mattino senza quasi aver chiuso occhio, dopo dodici birre della sera prima e un paio di bicchieri di gin di pessima qualità al bar dell’ultimo villaggio per cui erano passati.
No, non le piaceva proprio. Non le piaceva il suo odore.
Si appoggiò alla spalliera del letto, mettendo un cuscino, dopo averlo tirato via da sotto la testa di lui, che non si mosse. Prese in mano l’accendino e ricominciò a giocherellarci, lo sguardo dritto davanti a sé.
Si rialzò e andò a frugare nella borsa di lui. All’interno del portafogli c’erano trenta dollari e il permesso di guida. Lo richiuse e lo ributtò dentro.
Cercò per la stanza e alla fine lo trovò, un piccolo frigobar dietro uno sportello color legno scuro, sotto la mensola che faceva da scrivania e toilette, dove c’era uno specchio. Vide le bottigliette di liquori, sette, otto. Le prese in un mucchio tra le mani e le portò sul letto. Ne aprì una alla volta e ne versò il contenuto spargendolo sulle lenzuola. Poi riandò nel bagno e sfilò la carta igienica, tornando di là la srotolò e sparpagliò pure quello sopra al letto e tutt’intorno, per terra, sulla moquette. Il liquore rimasto lo rovesciò sui mucchietti di carta, e così fece con il dopobarba che aveva recuperato dalla borsa di lui. Infilò la mano nella tasca dei jeans stretti, ne tirò fuori l’accendino rosso e il biglietto da 20 dollari che lui le aveva dato, lo appallottolò e lo gettò sul letto dove lui dormiva. Raccolse la vestaglietta da notte in nylon e gliela lanciò addosso. Appiccò il fuoco. Stette un attimo lì a vedere le fiamme che a poco a poco si attaccavano alle lenzuola, al materasso, alla moquette, strisciando in silenzio. Poi si girò e uscì dalla stanza, richiudendo bene la porta dietro di sé dopo aver bloccato la maniglia, e rivolgendo un’ultima occhiata al sensore antincendio che penzolava dal centro del soffitto.
Fuori c’era un pick-up parcheggiato davanti alla stanza vicina, la numero 15. Faceva ancora fresco, a quell’ora.
S’incamminò nel piazzale del motel avviandosi verso la strada. Si voltò a guardare indietro e vide il fuoco che divampava attraverso la finestra chiusa, attaccandosi anche alle tende sottili a fiori. Se avesse avuto una tanica di benzina sarebbe stato meglio, pensò.

Continuò a camminare verso il deserto grigio, spento e smorto con i cespugli bassi e i rovi e gli arbusti secchi e le pietre anch’esse grigie .No, non quello di dune e di sabbia dorata che aveva visto in fotografia, no.

* “Racconto vincitore del corso di scrittura 2019/2020 tenuto da Valeria Viganò”

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Torna in alto