Lo ammetto: nonostante la stima che nutro per Claudio Petruccioli, non avevo mai letto la prima edizione di “Rendiconto”, uscita in libreria nel 2001. Lo leggo oggi, smagliante più che mai perché arricchito da un’appendice 2.0, scritta nel febbraio 2020, e mi rendo finalmente conto di quale imperdonabile sbadataggine io mi sia macchiato. Quante cose degli ultimi cinquant’anni di storia patria avrei capito meglio! Avrei avuto a mia disposizione un agente segreto incaricato di muoversi, con l’acume e il tatto indispensabili alla missione, nel racconto politico recente del nostro paese; pronto a relazionarmi su ogni retroscena, undercover e protagonista, attore di primissimo piano ma anche esploratore attento (nonché cronista affidabile e puntuale) della galassia più amata, intricata, gloriosa, controversa, misteriosa della sinistra italiana: il PCI. Naturalmente incluso il travaglio della sua metamorfosi, quasi kafkiana, in ciò che è oggi: quel Partito Democratico in perenne fibrillazione, la cui ricerca filosofica dell’Assoluto sembra non avere mai fine. Inducendo l’autore a citare (un colpo di genio) il celebre paradosso di Zenone sull’affannosa corsa di Achille dietro alla tartaruga, ma letto al contrario: Achille è il PD che insegue, a ritroso, l’irraggiungibile tartaruga impersonata dal PCI.
Leggendo “Rendiconto”, il film degli avvenimenti per noi italiani più cruciali dei ultimi decenni (la caduta del muro di Berlino, la bufera di Tangentopoli, il crollo della prima Repubblica, l’Europa della moneta unica, l’avvento dell’era Berlusconi e la terribile crisi attuale) ci passa impietosamente davanti: e tutto però diventa più chiaro. Come se un puzzle composto di migliaia di pezzi si ricomponesse senza sforzo, rendendo lineare e comprensibile anche ciò che nella realtà è stato enormemente complesso e farraginoso.
Una menzione speciale la vorrei riservare all’analisi di rara finezza, politica ma soprattutto psicologica, dedicata a due personaggi fra i tanti che l’autore ha ben conosciuto “dal di dentro”: Achille Occhetto e Massimo D’Alema. Attraverso l’analisi, acutissima, anche solo dei tratti caratteriali diametralmente opposti di queste due figure cardine, il lettore può facilmente capire in quale mare magnum di difficoltà si sia dipanata la lunga marcia verso l’adeguamento, decisivo ma ancora tutto da completare, da parte della sinistra italiana e del suo “popolo” alla modernità che la incalza senza darle tregua.
Chiuderei questa recensione con due domande, una quasi retorica, la seconda rivolta al brillante autore. La prima, preparatevi, ha un sapore amaro, inquietante. Mi sono chiesto: che effetto farà (o farebbe?) la lettura di questo libro pieno di intelligenza, di confronti e scontri dialettici aspri ma in genere leali, di tradimenti, di speranze deluse e conquiste, di gioie limpide e cocenti delusioni, tutti vissuti con passione genuina, su un millennial abituato (nel migliore dei casi) a percepire la politica come fatto arido, sterile guerriglia combattuta a colpi di tweet? Non confronto tra portatori di idee necessarie alla costruzione di una società migliore, ma scroscio di pioggia acida, incessante come quella di “Blade Runner”? La risposta, datela voi.
La seconda domanda mi ronza in testa da almeno vent’anni, e sono contento di poterla finalmente esprimere qui, ora: nei gruppi dirigenti che, da Togliatti a Berlinguer fino a Occhetto e D’Alema hanno guidato il Pci nella seconda metà del novecento, qual era la percezione reale del fatto che le inappellabili decisioni sull’assetto mondiale sancite nel ’45 a Yalta non avrebbero in alcun modo consentito a una forza politica occidentale che si dicesse, anche solo nel nome, comunista, l’accesso alla stanza dei bottoni?
Ah, saperlo. Probabilmente, mi sussurra l’autore, nel prossimo libro.
_______________
Il libro è disponibile su: