Varie dal Lido di Venezia

Dalla mostra del Cinema -Tre citazioni personali. Innanzitutto un film brasiliano, “7 prisonieros” di Alexandre Moratto. Film coraggioso che denuncia, senza sbavature né concessioni allo spettacolo, il caporalato nello stato di San Paolo e i condizionamenti ai quali soggiacciono i lavoranti, donne e uomini, presi con l’inganno e diventati schiavi, prigionieri dei caporali, vivendo in cattività, sottratti documenti e cellulari per rendere impossibile ogni fuga e sotto costante minaccia della vita loro e dei loro familiari. Mi chiedo e vi chiedo: perché in Italia non si fanno film sul nostro caporalato? Forse ne esistono? Certo, ora c’è anche una legge, ma quanto esteso e quanto clandestino è questo fenomeno soprattutto, ma certo non solo, nel nostro Sud? E perché non lo si denuncia con forza facendolo emergere? O forse ci si illude che sia estinto?
E poi “Amira”, un piccolo grande film del regista egiziano Mohamed Diab. Chissà se mai uscirà nelle nostre sale, ma forse in dvd o su piattaforma. Io ho già voglia di rivederlo! Procuratevelo! Parla in modo del tutto originale dell’eterno conflitto arabo-israeliano. Non c’è la solita ripartizione buoni/cattivi, tutto è sub iudice. È la storia di un palestinese in prigione da anni che dal carcere ha ‘contrabbandato’ il proprio seme per far nascere Amira, la figlia ora diciassettenne che lo ama e lo ammira da lontano per il suo coraggio. Quando però vuole ripetere l’azione temeraria per avere un secondo figlio facendolo risultare come del fratello ci si accorge che il seme è sterile. Così nasce il caso: di chi è figlia Amira? Il tema coinvolge l’eterno conflitto fra biologico e culturale, l’idea di genitorialità, l’ideologia, con tutta la zavorra di intramontabili tradizioni nelle quali si dibattono i protagonisti verso un finale sorprendente, spiazzante e emozionante che sconvolge le vite di questa famiglia palestinese. Cosa significa essere padre? Chi è padre? Bravissimi gli interpreti, a cominciare dalla giovanissima Tara Abboud, l’unica protagonista che abbiamo fortunosamente applaudito dal vivo lontano dal Red Carpet accessibile ai soli fotografi accreditati per via del Covid.
Infine “Aria Ferma” di Leonardo di Costanzo. Dico subito che sono di parte: il suo “L’Intervallo” è per me uno dei film meglio riusciti della cinematografia italiana degli ultimi anni. Un gioiello. Questo suo ultimo film – attori principali Toni Servillo e Silvio Orlando – conferma che il regista ha maturato uno stile che non è solo legato alla forza delle immagini, ma che ha uno spessore etico, un taglio e un rigore inconfondibili. Recitazione misuratissima, essenziale ma di enorme potenza. In un carcere vecchio e malandato, abbandonato alla rovina e che sta per essere dismesso deve essere trasferito con urgenza un piccolo gruppo di detenuti così che le guardie carcerarie già pronte a partire per altre, migliori destinazioni, sono costrette a restare. Tutto si svolge in un desolante silenzio spettrale. Ma qualcosa accade. Il detenuto più “titolato” in termini criminali, La Gioia (Silvio Orlando), si offre, di fronte alle proteste degli altri detenuti per il cibo precotto scadente, di cucinare per tutti guardie e detenuti. Genovese e ragù. Si fa carico insomma, sorvegliato dal capoguardia (Servillo) di affrontare la situazione in nome della comunità. Due momenti toccanti: in un black-out elettrico si apparecchia una tavola da pranzo comune per guardie e detenuti con il ragù preparato da La Gioia al centro della rotonda su cui si aprono le celle; e poi un vecchio detenuto istupidito dall’età e emarginato dagli altri perché accusato di pedofilia riceve l’assistenza del più giovane, un detenuto disadattato, che lo asciuga dopo che si è urinato addosso. Una scena memorabile dal sapore evangelico. E ci si interroga sull’irredimibilità del Male.

 

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