Ogni volta, ogni cazzo di volta che mi giro, lui mi fa uno scatto! Con quella fotocamera che non scende dalle sue mani, che ha preso il posto dei suoi occhi, che pretende di amarmi come lui mi ama. E io vivo nella paura, temo che lei mi stia derubando il tempo, la vita, ogni soffio che dovrebbe uscire da me libero. E invece lei mi consuma, tramite lui che mi ama. È un triangolo spietato e io non so dove andarmene, dove nascondermi. Non c’è più posto per me, se non dentro quell’obiettivo freddo e rotondo, che a ogni scatto rapisce un pezzo della mia anima. Chi diavolo mi ha sussurrato quel giorno di regalargliela, per il suo compleanno? Pensavo di fargli una sorpresa? Ebbene, ci sono riuscita. Ma poi si è sbilanciato tutto.
Lui ride. Perché ridi, uomo della macchina fotografica? Perché ridi? Non è amore questo, è spreco. Il nostro amore è diventato vittima del gioco più diffuso nell’era moderna: la rappresentazione di se stessi, ed è stata tutta colpa mia.
Devo troncare con loro due, lui e la sua macchina acchiappa-anime. Potessero lasciarmi in pace per un istante, e invece no. Vivo nell’angoscia di dovermi voltare.
Non vi respiro più!
Quasi quasi prendo l’aereo e parto.
Vado in Tibet, India, Arabia Saudita. Mi rado la testa e prego, coperta dalla testa ai piedi, mi converto all’induismo. Ma quel rumore dello scatto non lo voglio più sentire.
Sono una donna, non un’immagine!