DIRETTORI E DITTATORI

A inizio marzo il sindaco Giuseppe Sala e il sovrintendente Dominique Meyer hanno cancellato collaborazioni e contratti con il direttore russo Valerij Abisalovič Gergiev. Non una mera discriminazione russofobica, ma la conseguenza della sua mancata risposta alla richiesta non di un’abiura ma di una presa di distanze dalle responsabilità del suo paese nel conflitto in corso. A scanso di ipocrisie si deve ricordare che, in tempo di pace, a Valerij Gergiev sono state riconosciute onorificenze da numerosi paesi: Giappone, Olanda, Belgio, Polonia, Finlandia, Germania, Francia “Ordre des arts et des lettres” e “Legion d’Onore”, Italia “Grand Ufficiale della Repubblica” e, non ultimo, Ucraina con l’Ordine di Jaroslav il Saggio “per il significativo contributo personale allo sviluppo delle relazioni culturali tra l’Ucraina e la Federazione Russa, per la professionalità e per i molti anni di proficua attività creativa”. Dimostrazione dell’indubbio valore artistico del Gergiev-direttore da cui, con fatica, dovremmo (forse…) scindere quello etico del Gergiev-uomo.
È giusto bandire Gergiev e tutti gli artisti russi che non condannano il loro paese?
La risposta possiamo cercarla nella storia che ci ha tramandato altri esempi di artisti coinvolti, o travolti, da eventi simili.
Wilhelm Furtwängler fu il più ambiguo. Nella Germania degli anni ‘30, non prese mai apertamente posizione contro i nazisti che, comunque, lo consideravano il “direttore ufficiale del regime”. Ciononostante si rifiutò sempre di omaggiare con il saluto a braccio alzato e, pare, aiutò anche qualche orchestrale a fuggire all’inizio delle prime persecuzioni contro gli ebrei salvo, poi, fare propaganda antisemita contro il suo collega italiano Victor de Sabata. Gli americani lo processarono a fine conflitto; la sua amicizia con Speer e la direzione dei concerti Wagneriani per i compleanni di Hitler e per la Gioventù Hitleriana, lo rendevano di per sé un imputato naturale. Fu assolto e , lentamente, riabilitato. Più pavido che collaborazionista a giudicare dalle sue dichiarazioni durante il processo. Il primo paese a ospitare Furtwängler subito dopo la guerra fu proprio l’Italia con un concerto alla Scala. Rimane uno dei più grandi direttori del XX secolo.
Herbert von Karajan ebbe col regime nazista un rapporto diverso. La sua lettera di adesione del 1936 e la tessera del partito nazionalsocialista n°1607525 inchiodano il “Kamerad Heribert von Karajan” alle sue scelte dell’epoca. Karajan, al pari del Führer, era austriaco e nel 1938 con l’Anschluss, l’annessione dell’Austria alla Germania, compose persino un brano “Die Anschluss-Sonate” per celebrare l’evento. Il “Wunder Karajan” non era apprezzato da Göring, ma da Goebbels sì al punto di intervenire personalmente bloccando le indagini sulle origini ebraiche di Anita Gütermann con la quale stava per sposarsi. Un’ulteriore prova dei suoi contatti stretti col regime. A fine conflitto ebbe enormi problemi, ma fu abile a riabilitarsi e, già nel ‘49, si ritrovò direttore principale della Philharmonia Orchestra di Londra per tornare poi ai Berliner Philharmoniker nel ‘54. Sino alla sua morte nel 1989, Israele rifiutò di ospitare lui e i Berliner. Non fu un fanatico del regime, ma un ambizioso opportunista sì.
Arturo Toscanini tenne un profilo differente. Pur con origini famigliari e idee socialiste, nel ‘19 si candidò nel collegio di Milano nella lista dei fasci di combattimento con Mussolini e Marinetti, ma non fu eletto e già prima della marcia su Roma divenne tenace oppositore del fascismo. La sua ostilità al regime e il rifiuto di dirigere in presenza di Mussolini, ebbero come conseguenza il ritiro preventivo dei passaporti a lui e alla sua famiglia. Nel ‘31, al Comunale di Bologna, rifiutò di eseguire Giovinezza e la Marcia Reale in apertura di un concerto alla presenza di alcuni gerarchi. All’uscita venne malmenato da una squadraccia fascista. Fu l’episodio decisivo. Riuscì a fuggire verso Milano e, con difficoltà, espatriò negli Stati Uniti che abbracciò come seconda patria. Mantenne alta la voce di condanna al regime fascista perorando la causa degli “italiani liberi” in appelli al presidente Roosevelt e in molte dichiarazioni pubbliche. Tornò in Italia nel ‘46 per dirigere il concerto di riapertura della Scala. Per molti rappresentava una bandiera di libertà, non si piegò mai.
Il violoncellista e direttore catalano Pau Casals, nella Guerra civile spagnola del ‘36, si trova da subito sul fronte degli oppositori al franchismo. Espatria insieme ad altri attivisti a Parigi dove rimane sino alla caduta della città nelle mani delle truppe tedesche. Il suo enorme valore artistico e la sua fama lo proteggevano. Hitler stesso lo voleva a Berlino in concerto. Lo fece cercare e i suoi emissari lo scovarono, un paio di anni dopo, nel piccolo borgo di Molitg-les-Bains, nei Pirenei francesi dove si era ritirato per rimanere vicino alla sua Catalogna e aiutare materialmente gli esuli in arrivo dalla Spagna. Rifiutò l’invito del Führer certo, ormai, di essere deportato con la forza. Gli eventi precipitarono e, prima del suo arresto, la guerra terminò. Non terminò, purtroppo, la dittatura di Francisco Franco. Casals, per protesta, decise così di proseguire il suo esilio volontario in quello sperduto paesino silenziando, anche, la sua immensa arte. Il mondo musicale intero si mosse per raggiungerlo dando vita, in quel luogo periferico, al più importante festival musicale del suo tempo: il Festival di Prades. Un grande artista e un uomo ancor più grande.
Mstislav Rostropovich, in tempi più recenti nell’ex Unione Sovietica, dissentì contro il regime sostenendo la rivoluzionaria idea per cui “l’arte deve vivere senza frontiere essendo libertà di espressione ed essenza dei valori democratici“. Per il suo appoggio e per aver dato ospitalità in casa a Sergeij  Prokofiev e  Aleksandr Solženicynai, sostenendo anche altri dissidenti e oppositori al regime, Leonid Bréžnev gli fece revocare la nazionalità nel ‘78 dopo aver cercato in ogni modo di osteggiarne l’inarrestabile carriera internazionale. Lasciò il paese e accettò, come tanti, il passaporto statunitense. Undici anni dopo, armato di archetto e violoncello, suonò senza dire una parola davanti al muro di Berlino che crollava: quel gesto, ripreso dalle tv di tutto il mondo, divenne un indelebile simbolo di libertà.
Maestro Gergiev, a lei la scelta.

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