Bentornata consistenza

Nella hit parade delle parole più usate degli ultimi vent’anni c’è Immagine.
«Fa immagine, la civiltà delle immagini, la cultura delle immagini, curo l’immagine, cerca un’immagine, quel che conta è l’immagine». E si potrebbe continuare per un pezzo.
Per la serie scurdammece ‘o passato. Ma il passato ci serve per capire al volo quanto, in tutto questo tempo, ci sia mancata la parola consistenza. Sennò che senso avrebbe avuto l’aggrapparsi all’immagine e l’inseguire acriticamente tutto ciò che la riguarda?
Dunque, la consistenza. Parola grave, concetto serio, freno alla trasgressività frivola, barriera verso le illusioni pericolose, rappel-à–l’ordre per menti/dementi frastornate da grandi chiacchiere, grandi visioni, grandi suoni, grandi soldi, grandi poteri, grandi riti e grandi miti.
Lei, la consistenza, è lì come una zia imperiosa e fastidiosamente pragmatica che ti ricorda di lavarti le mani prima di andare a tavola, cambiarti d’abito a seconda dell’occasione, confessarti se hai peccato, arrivare puntuale agli appuntamenti.
Lei, la consistenza, è lì come una madre premurosa che ti ricorda il compleanno della nonna, incita a tenere il libro dei conti, ti soccorre nella ricetta della mousse au chocolat purché tu faccia bella figura.
Lei, la consistenza, è lì come una tutor severa che esige disciplina, senso del dovere, altruismo, credo nei valori con la V maiuscola.
Questo rientro nei ranghi si percepisce.
Erica Jong, autrice negli anni ‘70 di un libro “scandaloso” come Paura di volare, dichiara di «Vedere e capire le donne che adottano di nuovo uno stile tradizionale. È più rassicurante e meno faticoso.»
E, ancora lei, asserisce che dopo un ventennio di avidità, contestazione, protagonismo, è fatale il ripescaggio di valori meno estetizzanti. Sotto sotto si comincia a parlare senza veli dello stress da società in cui conta soltanto l’immagine.
Per dirla con Christopher Lash, professore di storia e indagatore della cultura del narcisismo, «In un’epoca di turbamenti come la nostra, la vita quotidiana diventa un esercizio di sopravvivenza».
Come dire che l’imperativo inconsistente che ha dominato gli ultimi decenni è stato quello di vivere alla giornata, che la faute -ovviamente inconsistente- è quella di non aver guardato che raramente al passato e di aver perso la fiducia nel futuro.
La sostituzione di un mondo consistente, fidato e durevole, con un altro, sovrappopolato di immagini caduche, sfarfallanti e quindi inconsistenti, ha fatto sì che sia sempre più arduo distinguere tra realtà e fantasia.
In un mondo così, vacilla l’idea della propria identità: «Se faccio la manager, cosa c’entrano la minigonna e il tacco a spillo?»
Infierisce la disabitudine a far quadrare il conto tra fini e mezzi: «Voglio potere e denaro, ma per arrivarci tocca scendere a compromessi al limite dell’illegalità».
Incombe la difficoltà nei rapporti con gli altri: «Passo le serate aspettando che squilli il telefono. Peccato che nessuno mi chiami perché pensa che un mito non si possa disturbare».
Morale: la consistenza è lontana, ma sentita, come un’antenata partita per gli States o l’Australia che telefona via Skype, dicendo: «Raggiungici, qui è il paradiso».
La consistenza è come il richiamo della giungla, che per quante pazzie tu compia e tentativi faccia per archiviarla, rimane dentro, sottintesa e magari disattesa, ma non alienabile, cancellabile, o arginabile se ti si ripresenta.
Anche fuori dai tuoi programmi, anche se a te sembra che contino soltanto, secondo stereotipi pubblicitari, la Sensazione Doc, l’Audacia nel Tempo, il Buon gusto dell’Ambasciatore.
L’unico coraggio consistente richiesto, è quello di allontanare il demone della facilità di apparire e trovare la consistenza di essere.

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