Una visita

 

Sedeva di fronte a lui. Che le parlava. Non molte parole. Quelle necessarie? Neanche. Domande allegre. Accompagnate da un sorriso. Ogni tanto uno sguardo duro se lei lo rimproverava. Ma spesso erano allegri. Per poco. Poi lei piangeva con lacrime che scendevano velocissime e che lui leccava perché bagnavano le loro mani. Il viso di lei si arrossava, il naso diventava gonfio, gli occhi si sperdevano e invecchiavano lo sguardo. Lei per quei minuti non esisteva più. Lui stava in silenzio attendendo che il fluire cessasse. Infatti il sorriso poi prendeva il sopravvento. Così il momento cambiava e i minuti passavano. Lui guardava l’orologio sempre più spesso, stava attento ai rumori fuori della stanza, scostava il paravento. Stringeva le dita di lei, le rassettava i capelli, le poggiava il cappotto sulle spalle. Le stava dietro, fermo attendeva che lei andasse, la mano su di un seno e l’occhio lontano. Le prometteva un sempre. Il camice bianco chiuso e la camicia dal collo slacciato. Si dicevano addio semplicemente. Ma si sarebbero sentiti la sera stessa. Lui pentito. Lei con il singhiozzo libero e intermittente. Oltre la tenda il sole dell’inverno, i vetri caldi del primo pomeriggio. Il brusio della gente fuori dalla stanza. Erano. E non erano. Il lettino ordinato, i ferri nelle vetrine tra cotone e alcool. Ospedale dagli odori forti. Quando usciva e scendeva le scale incontrava barellieri e infermieri col carrello da spingere. Non guardava. Non voleva ricordare né fissare. Era fuori in un attimo, anche se il dolore la affliggeva di più. Lui aveva ripreso a lavorare. Attendeva i pazienti. Di lei gli restava il profumo. Il pianto. Non riusciva a visitare, pensava ed era frastornato. La notte voleva scordare. Ecco, scordare era la miglior cosa. Lui lo sapeva bene. Lei no.

La sera si faceva nera. Lui aveva l’auto ferma al posteggio dal mattino. Ora pioveva di una acqua stretta di gocce, che bagnava subito. Si posava sul bavero sulle spalle curve. Il fango formato dalle ore, le luci dell’ospedale accese in neon come azzurrati, freddi, o gialle e calde. Le ambulanze ferme, su cui la pioggia scivolava. Lui aveva un basco calcato, correva saltellando. Le sue gambe agili nel passo ancora giovane. Lei era stata ad aspettarlo, chiusa in auto per ore. Pensando. Nel tormento nel desiderio. Lo vide aprire lo sportello e scese subito per fermarlo. Sussultò lui, nel buio del posteggio. Le mani di lei sulle sue spalle. La guardò come una estranea, poi la sorpresa. Cosa vuole questa donna che non si calma e che genera compassione grande? Cosa può darle se non attimi. Cosa che lei desideri per sopravvivere. Sono sotto una pioggia lenta sotto aghi e punture. I capelli di lei attaccati alla fronte in un sol attimo. La abbraccia piano. Le dice che deve scappare, che non può restare. Che si accontenti. Lei conosce già le sue parole. “Non farti fare ancora del male. Vai. Vai” E va, si richiude in auto. Fredda nelle guance. Fredda dentro. La città si stende nella nebbia nel colore denso della notte. Le lacrime si fanno di vetro. Perderà. Ha già perso. Non si può esistere. La malattia esisterà ancora. Lui non può guarirla da niente, lei lo sa. Lui no. Lui crede di farcela ma non ci riesce e sbaglia. Lui la abbandona troppo presto. Lei muore piano. Di un amore lento.

Lei, Marta, regge un bicchiere, beve a piccoli sorsi. L’acqua cola lungo gli angoli delle labbra, bagna il mento, il petto. Aspetta che entri lui, Guido dalla barba scura, dalle grandi mani pallide. Entra, infatti. La guarda. Lei, sul lettino cigolante, ha uno sguardo annacquato. Dietro una lacrima perenne che si forma non appena lo incontra. Le prende il braccio, misura la pressione, le dice di star calma. L’ecografia dura poco, le sorride con sollievo. Marta non vuole sapere. La finestra non attutisce i rumori del posteggio, le sirene allarmanti. Due nuvole gonfie si fermano ad oscurare quel che rimane del sole pomeridiano. Guido le solleva il mento, la accarezza fuggevole e timoroso. Lei si aggrappa al suo braccio, al colletto del camice, alla testa china. Guido la ama, di un amore calmo. Ma che può finire presto. Che è fatto di poco, di compassione e curiosità. A casa lo attendono le figlie la moglie. In ambulatorio lo attendono i malati gli infermieri. Guido sa che Marta soffrirà. Niente può essere un sollievo per lei. Neanche la malattia che potrebbe svanire ma che per Marta è il conforto delle ore. Si stende sul letto e si copre. Ma lui la fa alzare, la sprona ad uscire dalla stanza. Le sfiora le dita. Lei bacia le mani di lui famelica. Ha il viola delle occhiaie che si stempera in un verde di erba soffocata, di ombra malata. Sono soli, attorniati da un ospedale immenso. Si salutano. Guido ora la abbraccia, le aggiusta sul collo la sciarpa, con fretta. Promette il suo sempre. Farfuglia parole che non vuole conoscere. Ha una pena che si gonfia e svanisce subito. Marta esce. A casa piangerà prendendo le ultime pillole della giornata. Lui non c’è. Né mai ci sarà. Marta ha capelli da strappare. Ha lacrime da nascondere. Ha sorrisi impacciati. Vuole una malattia senza un nome, che scompaia nel giro di una notte. Vuole che i suoi giorni abbiano colori tenui, sapori di buono e perduti. Sente che Guido sfuggirà con le ore col tempo, che tutto tornerà come prima. “Prima non c’ero, adesso sono qui” le dice lui. E lei non ascolta. Lei desidera guarire da tutte le malattie. Lei ha un pigiama rosa e un guanciale azzurro, medicine sul comodino, specchi che sono ingrati. Marta non vive e tormenta i suoi capelli, torce e ritorce le ciocche fragili e poi guarda le sue mani bianche. Le mani che lei e lui hanno uguali. Quando la sera si avvicina lei è sola e non fa più sogni. Guarda i vestiti appesi, le ricette mediche allineate sul tavolo, le nuvole dense pressate sul vetro della finestra. Non ha coraggio, ha gambe che tremano facilmente, un cuore dai battiti veloci, un telefono che non squilla. Solo col mattino riprende fiato. Torna in ospedale. Si sdraia sul lettino e attende l’ago, le infermiere sgarbate, i medici distratti e occupati. Guido la saluta da lontano. Complice. Nulla più. Marta crede di sopravvivere. Non ha amiche, ama solo una persona. Che non ha occhi belli, che non ha una vita semplice, che cambia umore spesso. Marta ha nausea, ha pure paura. Lui si abbassa e la guarda. Stringe le sue dita. “Avrò altri amori io? Avrò una vita? Ancora e ancora?”. È così che prende il taxi per tornare a casa. Con pensieri troppo confusi, come il cielo che ora vede dal finestrino, come il vento che soffia feroce. È inverno e Marta forse morirà. Marta che muore. Marta che vive. Guido sente che qualcosa preme, che il suo corpo non respira. Ha addosso una storia che deve finire, ma non può. Perché Marta non si sa se vivrà. E la fine di Marta lo uccide in quel dentro che ancora gli rimane. Guido accende il motore e parte. Torna a casa con il peso della giornata la fatica e il tormento. Marta che gli sta vicino nei pensieri ed è una spina. Marta ha occhi azzurri e annacquati ormai, ha capelli radi, labbra secche dal sapore del ferro. Marta resterà per quanto tempo ancora? È lui che se lo chiede, nella compassione che si fa grande ma che ora lo trasforma. Vorrebbe scappare da ciò che fu, da quel che c’è stato fra loro. Un poco, un niente. Piccoli piaceri contenuti, parole tante e confessioni che facevano della vita di Marta la somma del dolore. Guido si trascina fino al portone nella sera buia e ventosa, sollevando la sciarpa. Apre la porta e dimentica. Perché così deve essere.
** “Ad un uomo isola si giunge dopo un naufragio: può essere una tempesta improvvisa o al contrario un’onda annunciata da basse nuvole gonfie di vento, avvisaglie sottovalutate o volutamente ignorate”. Gli uomini isola sono lontani dalla realtà, sono un mondo ideale, sono una casa che durerà nel distacco dal rumore della vita, sono la perfezione in un mondo imperfetto. Sono il bacio mai più dato, la sera che si appresta, il sorriso mancato, la carezza calda. Sono il tempo che si avvicina benevolo, la fortuna ritrovata. La vita che rinasce. Sono l’età che scompare. La bellezza in ogni cosa. Sono il futuro breve. L’uomo isola ti accoglie, finalmente. L’uomo isola si ama, e basta.

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