Potrei avere una bella vita in fondo, se non fosse così ingiusta, a cercarci l’ingiustizia. Entra il vento dalla finestra, i tronchi si agitano e l’orizzonte per me non è che un reticolo di aghi verdi, attraverso cui si intravedono facciate di case, livide per il temporale che si avvicina. Tutto perfetto, sarebbe.
Non credo che emergerò da questa solitudine, non ora che è bella, e non quando sarà brutta, e senza necessità. Perfino i vetri armati del terrazzo sono verdi. E le ringhiere, e gli scorci dei cortili. Non ne farò a meno, non ci riuscirò. Non è che l’ho voluta. Ma la sento, da sempre. E’ un segno interiore molto particolare e difficile. Ma c’è, inutile cantare quella moralistica canzoncina: la solitudine si deve fuggir. Non è con la fuga che non te la ritrovi appiccicata alle ossa.
“Insieme” non esiste, è una particolare invenzione della buona salute, la gioia di una breve intesa, che ad approfondire, ognuno ha capito ciò che gli fa comodo. Anche provare a mostrare scostando la piega accomodata con garbo sull’anima pone limiti se non pericoli. Qualcuno la strappa via e non ci trova niente di particolare, oppure non guarda, o ci si riflette, o prende come dal frigo e lo lascia pure aperto. Qualcuno distoglie lo sguardo, qualcuno fraintende, qualcuno lascia una carezza.
Il vento non aumenta d’intensità, è grave il cielo, quella tensione dell’attesa, della sorpresa. Come sarà questo temporale? Ognuno di noi lo può ragionevolmente prevedere. Non è che un angolo limitato che mi si offre, uno sguardo di traverso all’esterno di un balcone, e basta alla felicità: è quindi una bella vita, in fondo.
La casa è vuota e in disordine. Raccoglierò qualcosa e aspetterò la pioggia. Inutile sarebbe scavare o soffermarsi sul pozzo, che si vuole misterioso, delle combinazioni. Rimbocco lo zucchero nella zuccheriera di ceramica, con i disegni che non guardo più. E’ un buon argomento questa pioggia che non scende, questo vento che si alza ad onde e poi riposa, queste nuvole ormai ferme, i nidi silenziosi.
Hanno fatto tutti bene ad andare via. Non potevo offrire molto, un tratto di apparente bontà che non si perfezionava, che non si produceva, come la promessa della tempesta. Una certa costante produttività non li ha realmente sedotti: la richiesta aumentava e non ero in grado di rispondervi. Ho i miei limiti, la notte dormo e tre volte al giorno mangio. Intollerabile. Ma è solo mia la responsabilità: credevo che così avrei dimenticato d’avere per sorella intima quella separazione dal mondo che ormai, dopo un discorso serio, ha preso abitazione legittima. Sto molto meglio? Se sospendo un dialogo con la realtà, sì.
E’ forse mancanza di curiosità, o semplicemente la sensazione che niente veramente può sorprendere, o che è meglio che niente ci sorprenda perché quel delicato ritaglio d’arabeschi non debba cedere e svanire?
Chi ho offeso, a chi sono mancata? Perché non ce l’ho fatta? Perché ho pensato a salvarmi? Non mi sono mantenuta ai margini, semplicemente evitavo di esibirmi. Niente rincorse per le scale, né preghiere nelle strade, nessuna supplica perché qualcuno rimanesse.
Finalmente la pioggia. Ma è così silenziosa ed esile, che non l’avevo notata. Semplicemente bagna senza fragore, fa il suo dovere senza travolgere, lava, feconda.
Certe persone sono così.
Non potrei produrmi in discorsi complicati. C’è sempre quella distanza ad intervenire, a sedare gli effetti evidenti della passione. Mi mancavano i segni esteriori di tanta irruenza. Quel temporale sospeso, nascosto tra nubi violette.
Mentre il cielo si apre quasi contemporaneamente si fa strada la notte. La casa, il disordine, la sera. Nessun ricordo, solo aspetti che ancora sembrano abitare le mie giornate, persone con cui sono a colloquio senza posa, come una volta lo ero con Dio. Infine, lasciati andare. Non sembrava forte la mia presa? Ero lì a testa bassa, anche nel sonno, ostinatamente serrata sulle cose che amavo. Un giorno, in sogno, ho aperto le mani. Forse faccio questi pensieri perché mando ininterrottamente una musica, un brano breve, il passo compiuto di un altro uomo, la sua coerenza, il suo tentativo di rivestire d’espressione l’unico perso in se stesso, nella folla di forze che ci spingono e ci frenano.
Ho chiuso le finestre, perché fa freddo. Entrava a raffiche, ancora di più si avverte quando il tempo ci ha illuso di un calore costante. Così irrompeva il gelo improvvisamente nelle giornate d’amore, nell’approssimarsi della crescita, nella speranza del raccolto. E infine ci si arrende alla consapevolezza di una unica grande illusione, molto ben congegnata, molto ben costruita, con che perizia si andavano a tamponare crepe che non erano nell’intonaco, ma nelle fondamenta, fino nella carne di cui sono impastate. La porta si chiude.
Non è bene che io raccolga la mia bella vita? Tutte le scene che mi hanno recitato davanti, per convincermi di quello di cui ero convinta già: non era il caso.
Ci passeggio in questa casa come se passeggiassi dentro di me. In qualche stanza c’è luce, in altre bisogna accendere una candela. In qualcuna c’è musica, in altre un silenzio più armonioso. In qualche luogo mi nutro, se capita. Altri luoghi non li visito più, come le foto nelle scatole, che bruciano da sole, che sono cenere.
La notte si approfondisce, e se fuori non si accendono i lampioni, si insinua la luna, qualche fascio solitario penetra nell’arco di cielo sopra la città. E mentre guardo le mie mani giunte in grembo, seduta alla finestra, immagino che sia così pregare.
Stare muti senza parole, in una solitudine che è pregio, senza contare, senza spiegare. Così come sei: tu e la tua bella vita