A 43 anni mia madre è rimasta incinta.
Era l’immediato dopoguerra e fare figli a quella “tarda” età era quasi uno scandalo e comunque una cosa sconveniente. Così mio padre, che aveva secretato all’interno della famiglia tutta la faccenda, decise di darmi un nome in cui sfogare il suo disappunto: Jella. Aspettò il terzo giorno dopo la mia nascita e quindi si recò all’anagrafe del Comune per dichiarare la neonata e assegnarle quel nome. Nell’ufficio però incontrò un funzionario patriottico che rifiutando un nome straniero mi registrò come: Iella.
Quando poi arrivò il tempo del battesimo il parroco impose a mio padre il nome completo Gabriella al posto del suo diminutivo: Iella. La mia infanzia passò felice anche perché trascorsa nella “comunità dell’aia” dove si giocava e si mangiava tutti insieme senza dover dichiarare il proprio nome. Le cose si fecero un po’ più difficili alle superiori dove però la ribellione del movimento studentesco perdonava tutto, soprattutto a me che ne ero una leader. Anzi più una cosa risultava strana e nuova più veniva apprezzata.
La situazione precipitò all’Università dove ognuno dei 32 esami orali – proprio nel momento di massima tensione, mentre si stavano delineando le possibili questioni da commentare per la verifica – veniva preceduto da un quarto d’ora di domande sull’origine del mio nome. Che sofferenza! Era come sostenere un doppio esame.
E dopo tanta sofferenza, anche ora, quando qualcuno mi chiede come mi chiamo mi metto subito sulla difensiva. Come se fossi davanti ad un giudice penale. Solo l’amore di mia madre che era un vero angelo mi ha salvato dagli abissi di senso di colpa e vergogna. Solo l’amore di amiche e amici, che apprezzavano la mia intelligenza e la mia originalità, mi ha salvata, regalandomi autostima e serenità.
Così oggi mi ritrovo con tre nomi. Il primo è quello a cui alludeva mio padre per la tarda età in cui mi aveva concepito: Jella. Il secondo mi è stato dato dal funzionario dell’anagrafe che, lo italianizzò in Iella, con la i iniziale al posto della j. Il terzo è quello accettato dal parroco nel certificato di battesimo: Gabriella, nome completo del diminutivo Iella. E pur disponendo di tre nomi non riesco a trovarmi dentro a nessuno di essi. Sono una me stessa senza nome.
Come Ulisse con Polifemo, ho sempre preferito l’anonimato o, meglio, l’ambiguità della i maiuscola che si legge come elle, per sfuggire ai commenti ironici o perplessi se sono costretta a confessare il mio nome.