Angelina Bastea Ormedisi sposò una domenica di Ottobre.
Le nuvole erano basse e violacee, il suo abito bianco, di cotone. Il velo tenuto da una spilla ornata da una finta perla.
Angelina era minuta, pallida, e così bionda da sembrare albina. A dispetto del nome altisonante, o perlomeno lungo, lei era un’orfana, ma tutte le orfane di quel convitto prendevano il cognome del fondatore, Giovanni Bastea Ormedisi.
Sposò in quella chiesa nuda, dipinta a calce, e sposò un contadino. Alle spalle degli sposi non c’erano che i parenti di lui, e il direttore dell’orfanotrofio, che aveva fretta di andare via, e non partecipò neppure al pranzo di nozze. Angelina rimase seduta quattro ore, al suo pranzo di nozze, suo marito ballò sempre con una cugina, e sua suocera le sedeva accanto parlandole dei gran dolori che la affliggevano.
La notte si presentò mentre tutti ancora bevevano e il marito si ricordò di lei. La prese per un polso invitandola ad alzarsi, attraversò la sala della trattoria dove avevano pranzato, e a piedi, per due chilometri, verso casa, non le parlò mai.
La casa dei suoceri era un casolare di campagna. Salirono le scale e lui si fermò sulla porta della loro stanza. Angelina cercò immediatamente con gli occhi la finestra, e tra le tende si intravedeva una luna sbilenca e umida. Non le parlò, l’abito bianco non era prezioso, ma lei comunque ci avrebbe tenuto a tenerlo per ricordo. Ma lui la sollevò in silenzio, la prese senza riguardo, come se lei non ci fosse, e continuò a farlo. Infine si addormentò. La luna, che lei mai aveva smesso di guardare, si era liberata delle nuvole, ed ora sfolgorava nel nero della notte.
Le mattine che seguirono, di quel lungo anno invernale, videro Angelina occuparsi della casa a fianco della suocera, che era mesta e tirchia, piuttosto sofferente, e che spesso le ricordava che non era la donna robusta che avrebbe voluto per suo figlio. Ciononostante Angelina si sfiancava tra la stalla, la casa e il bucato, l’orto e i campi.
Di notti, come la prima notte, non ce ne furono più. La suocera contava le lune della nuora e comandava al figlio il momento per rendere madre sua moglie. Quindi Angelina sapeva quando lasciare scostate le tendine sottili della sua stanza, per tenere fisso lo sguardo fuori della gabbia, al cielo misterioso che l’aveva voluta sola. Eppure non ci fu verso che il suo ventre generasse un figlio.
Infine il marito non la cercò più. Il letto di Angelina fu spostato in cucina, e lui la sera, dopo essersi ubriacato, si incontrava con quella sua cugina. Non si chiese mai Angelina perché quel giorno l’avesse portata all’altare, e perché l’avesse chiesta in sposa al direttore del convitto dopo averle poco parlato, qualche volta, fuori della chiesa.
Si aggiunse, allo scontento, una vana violenza, un sordo terrore che colpiva Angelina in qualsiasi momento della sua giornata cieca.
Passò l’inverno, arrivò l’estate. Il sole nei campi fissava gli uomini al terreno, come un collezionista infilza le farfalle al velluto. Così lavorava al fianco del marito e degli altri della famiglia, e non parlava; e se qualcuno le rivolgeva la parola, guardava spesso il marito per sapere se aveva il permesso di rispondere. Le cognate, con i loro ventri gonfi, la disprezzavano, e sovente, durante la pausa, scomparivano con i loro mariti dietro qualche casolare, e la guardavano ridendo. Ma lei mangiava il suo pane, le sue olive, e beveva l’acqua. Non sapeva nulla della sua vita, se non che ora il letto freddo dell’orfanotrofio,il rigore delle mattine di gelo, la solitudine opaca della sua infanzia, a ripensarci, sembravano dei bei ricordi.
Infine arrivò il tempo della raccolta dell’uva. Vennero impiegati altri lavoranti, qualcuno dai paesi vicini. Angelina la mattina preparava la colazione per tutta quella gente, e assieme alla suocera, serviva. Era passato un anno, la sua pelle delicata era ora leggermente abbronzata, i capelli legati stretti, erano comunque carichi di luce, a malapena riusciva a guardare le persone negli occhi, ma molti guardavano lei. Ma nessuno della famiglia se ne accorse, e in fondo nemmeno lei, fino a quando qualcuno non cominciò ad aiutarla nei lavori, ad aspettarla per caricarsi delle sporte più pesanti, a cercarla con lo sguardo nei lunghi raduni di lavoro. Lei non rispondeva mai. La notte si ritirava nella cucina, fino al giorno in cui suo marito fu talmente ubriaco da farle troppo male e lei infilò la porta di casa e scappò in cortile. Di notte.
Quello che davvero la colpì non fu tanto il dolore che l’aveva spinta a trascinarsi verso la porta e a sfuggire a quel tormento, quanto l’immensa libertà della notte. Correva all’interno di un manto stellato, e perfino dalla terra nascevano piccoli fuochi che ad intermittenza si chiamavano e si celavano, una miriade di lucciole tardive. Arrivò fino al fiume, col volto asciutto e arso, e si stese sull’argine muschioso, tolse i vestiti e si immerse. L’acqua scorreva, nera e fredda. Qualcuno le parlò, dalla riva. Poi l’ombra si mosse e la raggiunse:
-Stai fermo- riuscì a dire. -Stai fermo.- E poi pianse.
Il tempo della raccolta arrivò al suo termine in un inizio di ottobre ancora caldo. La suocera di Angelina si rassegnò ad andare in ospedale dove nessuno poté seguirla, neppure le figlie, perché il raccolto era stato tanto e c’era da trattare con i mercanti, e c’erano poi gli altri lavori dei campi. Il marito di Angelina trascorreva quasi tutto il tempo all’osteria o a casa di quella sua cugina, che ora aspettava un figlio da lui.
Angelina prese la corriera e andò in città ad assistere sua suocera. Ma la donna, in capo a quindici giorni, morì. Quel giorno Angelina aiutò le infermiere a sistemarla, le pose intorno alle mani un rosario di grani azzurri, e la vegliò in silenzio. Poi uscì dall’ospedale e le sembrò di non avere più nulla da fare. La città era grande per lei, ed affollata, ma il fatto che la gente non la guardasse, la rassicurava. Non le parve di provare alcun dolore particolare, solo lo stupore che nulla le rimaneva, e che mai aveva avuto nulla.
Dall’alto del belvedere si indovinava il suo paese, e i campi dove ancora gli uomini e le donne si attardavano a spezzarsi la schiena. Il fiume arrivava fin sotto le mura della città, e lei provò un brivido. Era stato quello l’amore? Qualche parola e calore nel silenzio della notte, per molte notti di tregua, aver finalmente conosciuto un po’ di bene?
Alzò gli occhi verso le case, i palazzi, i negozi, le automobili e le file dei lampioni. Nel suo corpo c’era un segreto che non avrebbe condiviso. E a casa non ci sarebbe più tornata.
Lui, una notte, le aveva detto che sarebbe andato via: il mondo è pieno di misteri e di strade polverose, di montagne, di specchi d’acqua , per non parlare del firmamento e degli oracoli disseminati lungo le vie celesti. Per cui, addio. Angelina si avviò lungo una strada del centro, avrebbe trovato un posto, un riparo. Ormai non era più sola.
Condizione femminile Maternità Solitudine