“Okay, ragazzi, ecco la formazione di oggi: Marco e Michele difensori centrali, Fabio1 e Fabio2 ali, Antonio regista, Franco in attacco e tu… (pausa schifata) tu… in porta”. “Scusa mister (a Daniele piaceva molto farsi chiamare mister dagli altri bambini, forte della sua anzianità di undicenne), mister senti, non potrei fare la punta? Ho studiato le serpentine di Sandro Mazzola e…”. Un boato di risa accolse quella sua proposta tanto assurda da sembrare una barzelletta. “La punta, dici? Hai portato un temperino, forse?”. La risposta del mister scatenò un’ulteriore bordata di fischi e schiamazzi di scherno. “Vai, vai… Sandro Mazzola… (risata coi singhiozzi) Vai in porta G, che larga come sei, la palla non passa di sicuro. Oh, ma al primo gol che prendi subentra Giacomo e tu fili in panchina al suo posto”. G si avviò verso la porta (due maglie messe ai lati di uno specchio di rete immaginato) strascicando i piedi nella polvere del cortile che fungeva da campetto e masticando terribili improperi tra sé e sé (“Porco mondo!”, “Accidentiera!”, “Andrai all’inferno!”, ecc.). Era ben conscia che la facessero giocare perché aveva portato un bellissimo pallone Super Santos arancione, a sostituire quelli innumerevoli e leggeri che erano volati sui tetti e sui balconi delle casette che delimitavano quella larga corte, dove i bimbi locali e quelli in vacanza, si sfidavano in corse allo scatto (che spesso finivano con sfracellamenti improvvidi e ginocchia sbucciate), in derapate con bici “truccate” da moto (bastava mettere una cartolina e una molletta tra i raggi e vai che bel rumore di marmitta!) ed eccitanti giocate a nascondino, lunghissime perché i posti dove celarsi allo sguardo del segugio di turno erano innumerevoli e spaventosi: sottoscala, cantine buie – cui era stato fatto saltare il lucchetto – tra grosse botti e bottiglie opache di polvere e ragnatele, portoncini mal chiusi… per non parlare del mondo di una fattoria che si spalancava, una volta spinto l’enorme portale verde lasciato socchiuso da uno dei bambini, figlio del padrone. Come era bello rifugiarsi nella stalla! Persino respirare l’odore acre del letame sembrava far parte del gioco. Lì c’erano gli animali veri, grandi, caldi, morbidi o ruvidi alle carezze delle sue manine, mica quelli bidimensionali delle illustrazioni del sussidiario! Era uno dei tanti motivi per cui alla bambina piacevano le vacanze in quel paesino piemontese (600 m. sul livello del mare) in cui villeggiava per tre mesi coi nonni, prendendo in affitto una casetta. Un paradiso! Tutto il giorno fuori a giocare, prati, alberi, fiume, bambini, animali… E poi c’era il torneo di calcio. Lei era l’unica bambina del gruppo che adorava il calcio, seguiva le sintesi delle partite la domenica alla tele, tifando con veemenza nel salotto di casa, ripromettendosi di andare allo stadio una volta cresciuta. Aveva cercato più volte di farsi mettere in squadra, tra l’ilarità degli amichetti, persino quella di Sergio, il timido bambino con gli occhiali tondi, che le portava i mazzetti di margherite colte nei prati, la ascoltava cantare sulla base dei 45 infilati nel suo mangiadischi verde e che, una volta, le aveva persino prestato la sua meravigliosa bici rossa per insegnarle ad andarci (andò a finire che lei cadde tra i rovi, alla bici si torse il manubrio e i due bimbi si presero entrambi le busse dai familiari…). Il calcio, dicevamo. Tanto per darle il contentino, qualche volta l’avevano fatta sedere in panchina (i gradini della scala che portava al suo alloggio), guardandosi bene dal farla scendere in “campo”, ma quella volta lì non avevano proprio potuto farne a meno: c’era il rischio che, fumantina com’era, si ripigliasse il Super Santos e ciao ni’!
La partita era iniziata da una mezz’ora circa, senza azioni particolarmente pericolose da entrambe le squadre, quando Sergio, che faceva come sempre l’arbitro, essendo l’orgoglioso proprietario di un prestigioso fischietto di metallo con catenella, fischiò un rigore contro, dopo un intervento un po’ troppo deciso di Marco sull’attaccante avversario. Inutili le proteste dei giocatori che minacciavano Sergio di non fargli fare più l’arbitro e neppure le lusinghiere promesse di ghiacciolo alla menta (il suo preferito) pagato per tutta l’estate. L’inflessibile Sergio indicò il dischetto (una x tracciata col gesso al centro del cortile) e andò alla battuta un certo Gaetano, un ragazzino odioso di Torino, sbruffone e manesco. Questi, ridendo, tirò il rigore con inusitata forza, forse voleva far male alla bambina che, come aveva visto fare tante volte in tv, si era sputata sulle mani, strofinando gli immaginari guantoni, e si era messa immobile (sapeva che era meglio che saltare da una parte e dall’altra) in attesa. Fu allora che avvenne il fattaccio. La traiettoria della palla fu deviata con altrettanta forza dalla bambina, picchiò sull’angolo di una casa e incredibilmente la sfera si alzò e andò a finire sul lungo terrazzo di una casa.
Scese il silenzio. “Partita finita” decretò Sergio, soffiando tre volte con forza nel suo luccicante fischietto, mentre già tutti gli altri stavano malinconicamente allontanandosi. “Ehi, un momento!” urlò la bambina “E il mio pallone?” “Salutamelo” rispose ironicamente Daniele, il mister. “Ma non possiamo provare a recuperarlo?” riprese G. “Se torno a casa senza, me le suonano. Ho piantato una cagnara tanta per farmelo comprare… E L’HO FATTO PER VOI!!!” riprese lei con la voce che si stava pericolosamente incrinando. Nel cortile erano rimasti solo loro tre.
Sergio disse a Daniele: “Beh, poverina, ha anche ragione…” Ma il mister, con aria circospetta, facendo segno agli altri due di avvicinarsi, sussurrò: “Ma lo sapete bene chi abita in quella casa… Io non voglio neppure suonare, e anche voi fareste bene a starne lontani!”.
In effetti tutti sapevano che lì abitava un fantasma, che si intravvedeva solo raramente dalle finestre opache del piano terra. Un brivido sottile increspò la pelle abbronzata dei bambini. Sergio provò a dire che nel suo cortiletto c’era una scala a pioli che poteva essere appoggiata al balcone dove era finito il pallone: lui e G. l’avrebbero tenuta ferma dabbasso e Daniele, che era il più grande e soprattutto il più alto, sarebbe salito e, scavalcata facilmente la ringhiera, avrebbe recuperato il Super Santos, lanciandolo in cortile e sarebbe ridisceso senza problemi. Alla bambina sembrò un piano formidabile e lei e Sergio fissavano Daniele in attesa di un suo cenno affermativo. Invece il mister impallidì e berciò con voce stridula: “Ma voi siete matti! E’ un reato, mi mettono in prigione e pure a voi che siete complici!” Sergio si erse in tutto il suo metro e venti di statura e, piantando l’indice della sua manina grassoccia sul petto di Daniele lo accusò: “Sei un codardo schifoso!” “Ah sì? Allora vacci tu, ippopotamo. Se sei fortunato, rompi i pioli e ti sfracelli, se non lo sei, il fantasma ti prende e ti tortura!!!” “Sei un vigliacco!” “No tu lo sei”. Mentre i maschietti continuavano a insultarsi e spintonarsi nel cortile, la bambina si accorse che l’uscio della casa si era socchiuso e le parve di aver visto un sorriso balenare tra lo stipite e la porta. “I fantasmi non sorridono: hanno il lenzuolo che gli copre la faccia”, rifletté giudiziosamente, quindi si avvicinò ed entrò, essendosi allargata l’apertura del portoncino. Fu subito colpita da un odore fortissimo, per lei indecifrabile e sgradevole. Una volta accostata la porta di casa, gli occhi di G. faticarono a vedere qualcosa nella penombra appena ravvivata da qualche lama di luce polverosa, che filtrava dalle ante socchiuse delle finestre. C’era un mobilio antico, di campagna, coperto in parte da lenzuola che parevano muoversi. “Saranno i fantasmi?” si chiese – stranamente calma – la bambina. Ma mettendo meglio a fuoco la vista, ormai abituatasi alla scarsa luminosità, si accorse subito che i “fantasmi” non erano altro che decine e decine di gatti, di tutti i tipi e colori, che si muovevano saltando da una parte e dall’altra. L’odore terribile era causato da cibo lasciato in molteplici ciotoline, escrementi non raccolti, una sporcizia generalizzata. Il sorriso che l’aveva invitata ad entrare, scoprì che apparteneva a una vecchia signora, magrissima, quasi scheletrita, con indosso una lunga veste nera, da cui spuntavano solo viso e mani di un candore spettrale. Memore della buona educazione ricevuta, la bambina, deglutendo imbarazzata disse: “Buongiorno signora, mi chiamo G., abito nella casa in fondo al cortile coi miei nonni. Grazie per avermi fatta entrare. Volevo chiederle se potessi riavere il mio pallone che, sfortunatamente, è finito sul suo balcone, mentre giocavamo”. Intanto, diversi mici si strusciavano sulle sue gambotte e altri si erano fermati a osservarla. La signora non aveva smesso di sorridere e una specie di sussurro uscì dalle sue labbra: “Lo so, so tutto. Vi vedo sempre giocare dalle imposte. Vi sento gridare, cantare, chiamarvi, sento i colpi del pallone sull’intonaco della casa, sulle finestre…” “Ci scusi, signora” disse la bambina, dondolandosi vergognosa sui piedini nervosi “Non volevamo disturbarla…” Ma la vecchia agitò le bianche mani in un gesto di diniego: “Ma no, che disturbo! Siete come questi gattini che vivono con me: siete la vita che non ho più”. A queste parole un brivido agghiacciò la bimba: “Ma allora… è davvero un fantasma?” le sfuggì dalle labbra, credendo di averlo solo pensato. Ma il “fantasma” fece una risatina e la rassicurò: “Lo so che voi bambini credete che in questa casa viva un fantasma, invece vivo io, una donna che ha scelto di ritirarsi dal mondo dopo la morte di Gino”. “E chi è Gino?” chiese la bimba curiosa “Mio marito, il notaio di questo paese. Morì trent’anni fa, tra le mie braccia. Un attacco di cuore…” Si interruppe e G. vide chiaramente le lacrime che scorrevano sull’incarnato tanto pallido. “Non bastava il mio dolore per aver perso l’uomo che tanto avevo amato. Mi fecero del male, sai? Dissero che c’erano affari da concludere, debiti da onorare, spese da saldare. Mi portarono via soldi e cose preziose. Ma questa casa era della mia mamma. Questa non riuscirono a prendermela. Da allora vivo qui. Le persone mi fanno orrore, sono cattive. Mi fido solo di queste creature” indicò con un gesto ampio i gatti appollaiati in ogni dove “e poi ci siete voi, che riempite i miei pomeriggi con le vostre voci. Voi, ancora innocenti…”. Le si spense la voce e sembrò quasi accasciarsi. La bambina le si avvicinò e la sostenne. Poi le venne da abbracciarla e lo fece. La signora le carezzò i capelli. Poi si sciolse dall’abbraccio “Aspetta”, disse, e cominciò a salire una scala di legno che portava al piano superiore. Si udì un cigolio, poi il rumore di una finestra che si richiudeva. La vecchia tornò giù e si avvicinò alla bimba che stava accarezzando un gattino e le porse il Super Santos. “Ecco il tuo pallone. E di’ ai tuoi amichetti di stare più attenti, O VE LO BUCO ‘STO PALLONE!” disse con voce improvvisamente forte e minacciosa. Ma la bambina rise e la signora rise con lei. L’accompagnò alla porta e la bambina la ringraziò augurandole buon pomeriggio. Le rispose con un sorriso. Quando uscì, G. sbatté le palpebre, abbacinata dal sole dopo tanta oscurità. Le corsero incontro, col cuore in gola, Sergio e Danilo: “Sei viva? Come hai fatto a entrare? Cosa è successo? Come hai avuto il pallone? Hai visto il fantasma?”. “No” rispose la bambina “La porta era aperta. La casa è vuota. Non c’è nessuno dentro. Sono andata al piano di sopra e ho recuperato il pallone, tutto qui. Meglio che a calcio giochiamo da un’altra parte, comunque”. I suoi amichetti concordarono e, ancora un po’ straniti, si avviarono alle loro case. G. si girò, fece ciao con la manina a nessuno in particolare. Un fantasma sorrise.