Un altro dei tre migliori racconti usciti dal corso di “Scrittura narrativa” tenuto da Valeria Viganò (marzo 2023) – L’Autrice è Maria Consagra
Avrebbe preso i voti diventando una monaca di clausura. Una Clarissa! Suo fratello era un semplice prete ma lei sarebbe andata oltre, rinchiusa nel silenzio e nella devozione.
Immaginava sua madre incredula, la bocca aperta dallo stupore. La figlia tanto denigrata per aver voluto studiare e fare persino l’università, che a niente serviva, adesso si dedicava a Lui, sposa del Signore, portando onore a lei, vedova con tre figli. Le labbra sottili e dure di sua madre si sarebbero ammorbidite persino, ringiovanite in un sorriso di piacere e di orgoglio; lo sguardo critico e distaccato, si sarebbe addolcito forse anche illuminato da affetto, facendo cadere la barriera che le teneva, madre e figlia, distanti.
E così Lucia partì per diventare novizia nel monastero Santa Maria della Croce ai piedi del monte Solenne. Ottanta monache di tutte le età nascoste agli occhi di estranei, sia uomini che donne. Preghiera, lavoro e, per quanto può apparire strano, solitudine. Il silenzio portava a Lucia conforto e pregare le dava sollievo dalle tante domande che si accumulavano senza risposta giorno dopo giorno, mese dopo mese. La sua vera gioia era cantare nel coro, le infondeva un senso del sacro, diverse singole voci in armonia per creare un unico suono.
L’edificio, che conteneva fra le sue mura le monache, era proteso verso campi e colline, distese di terra portavano a faggi, querce, pioppi. Nei mesi freddi, i rami spogli e scuri sembravano disegni tracciati a matita. A fine maggio in alcuni campi verdi fiorivano papaveri rossi. In altri, ad agosto, girasoli gialli si allargavano ghiotti di sole. Il monastero sembrava volesse tendere verso l’infinito. Era una campagna serena, quieta.
Non si udiva parola nel monastero se non in alcune preghiere comuni e nel canto serale. Ma lì dentro non regnava la quiete. Varcando i cancelli come novizia era rimasta sorpresa nel vedere il modo concitato con cui ognuna eseguiva i suoi doveri. Concentrate e compite le sorelle si affrettavano da un lavoro all’altro per non arrivare in ritardo allo scandire del tempo al luogo adibito. Le erano sembrate padrone di casa in fibrillazione per l’arrivo di un ospite importante, Lui, il nostro Signore. Si era trovata anche lei a muoversi con lo stesso impeto, le veniva da sorridere benevolmente alla devozione espressa in quella sollecitudine.
Alla fine del suo noviziato, presi i voti perpetui e cambiando il nome da Lucia a Suor Augusta, rimase stordita, pietrificata, nell’apprendere che non avrebbe potuto studiare. Non era stata preparata a questa eventualità: l’abbandono totale dello studio. Non avrebbe potuto tenere libro alcuno in mano se non il volume di preghiere, dei canti liturgici e qualche manuale. Non finché si fosse rivelata pronta, le era stato detto.
Le avevano dato il compito di fare il formaggio. Pur sapendo che aveva studiato lettere antiche all’università. Sperava di diventare maestra delle novizie. Avrebbe potuto approfondire i suoi studi sulle sacre scritture ma “Non finché ti sarai rivelata pronta”. Le parole tuonavano nella sua testa, rimbombavano una per una in continuazione. “ no, non sei, non sei pronta, non sarai pronta, finché non sei…”
Lei non si era professata pienamente cristiana, cattolica, credente? Il suo atteggiamento durante il noviziato non era stato abbastanza dimesso? L’intento era chiaro. Volevano insegnarle la pazienza e l’ubbidienza attraverso l’umiltà. Chi meglio di lei poteva prendere su di sé l’incarico di guidare le novizie passo passo penetrando il disegno di Dio e nella consacrazione a Dio attraverso le scritture sacre. Eppure doveva sopprimere questo pensiero, la pulsione. Socrate si riferiva ad una forza divina, un dio intelligente che conosceva ed ordinava le cose. I Vangeli indicavano la strada e lei sentiva un vuoto in sé da colmare con l’amore di Dio, un amore che le premeva di conoscere e donare.
La maestra che le aveva accompagnate quell’anno di noviziato, l’anziana Suor Cecilia, parlava lentamente a voce bassa come se volesse rivelare un segreto a cui poche potessero accedere. Sembrava recitasse. I suoi occhiali ovali, dal bordo inesistente, spesso si annebbiavano nell’espirazione enfatica che seguiva un pensiero a lei particolarmente caro. Spesso si confondeva. Non finiva le frasi, portava a termine il pensiero ripetendo in perpetuum gli stessi concetti con voce melensa giorno dopo giorno. Non era possibile rimanesse in quel ruolo a lungo. Eppure, Suor Cecilia ci rimase.
A Lucia non restava che ubbidire. Il formaggio si faceva in un androne vicino al porticato che portava al retro delle cucine. Non usufruivano dei più moderni macchinari. Aveva imparato a fare il caglio ricavandolo dall’abomaso di caprette lattanti allevate in vicine fattorie. Macinava a freddo la mucosa gastrica trovata al suo interno e ci aggiungeva sali, conservanti e stabilizzanti. Il latte si riscaldava in un pentolone, si aggiungeva il caglio ed il tutto si trasformava in formaggio. Le piaceva osservare la metamorfosi, la trasmutazione di vari elementi in una singola nuova entità. Il formaggio veniva poi messo nelle forme, stagionato e venduto. Ne andava fiera. Avevano avuto ragione, pensò, aveva peccato di superbia nell’aver preteso di sapere come svolgere il suo cammino.
Capiva l’intento della Regola. Il silenzio, l’umiltà, l’obbedienza erano abbracciati per spogliarsi del Sé laico, per poter accogliere lo spirito di Dio. Andava soppresso tutto ciò che ognuna di loro riconosceva come “io”, prima di varcare le mura del loro futuro. L’emotività, le proprie attitudini comportamentali e sentimentali andavano… la parola che spesso si infiltrava nella coscienza di Lucia era soffocare, ndavano soffocate, andava soffocata Lucia.
Era attraverso i sensi che avrebbe potuto percepire la Forza Divina, non attraverso la volontà. Quale era la costruzione grammaticale per poter parlare di Dio, nome astratto? Dio si era incarnato in Gesù, era più facile immaginare un Lui uomo. Pregare Lui. Dipingere Lui, Scrivere di Lui. Era tutto così complesso ed allo stesso tempo si sarebbe rivelato semplice, ne era sicura.
A Lucia sembrò di perdere la ragione. Era forse questo il varco da oltrepassare, la perdita del sé conosciuto per accogliere l’amore di Dio. Lucia doveva sparire per far sorgere suor Augusta, senza pensieri, senza desideri alcuni, vuota. Un involucro di donna silente ed ubbidiente. Sua madre aveva appreso da Don Ubaldo, suo confessore, che Maria Vergine, madre del nostro Signore, parlava molto poco, ascoltava, accudiva. Non studiava, non chiedeva per sé, non aveva alcun desiderio se non di amare ed occuparsi di suo Figlio.
Iniziò ad osservare attentamente le sorelle mentre veloci ed impegnate si spostavano per arrivare alla chiesa, al refettorio, alla biblioteca, al dormitorio, al chiostro, all’orto. Era passato tempo da quando aveva varcato le mura del monastero come novizia. Le monache sembravano api agitate attorno ad un alveare. Percepiva un continuo ronzio di pensieri nascosti tra le pieghe della coscienza di ognuna di loro. E se fossero suoi i pensieri che non riusciva a dominare? Non c’era “ la pace dei sensi in unione con il Signore”. C’era il rimbombo di speranza di chi si accontentava, di chi non aveva scelta migliore, di chi si nascondeva. C’era l’urlo dell’ignoranza. C’era il desiderio di sparire. Semplicemente sparire. Un mondo femminile, trasparente, dedicato a Lui. Le sembrò che tutto il suo essere stesse andando in corto circuito. Doveva avere pazienza.
Successe in primavera inoltrata. La colpì inizialmente all’olfatto. Passando nel tardo pomeriggio per il piccolo giardino ben coltivato, non lontano dal chiostro, sentì l’odore dell’erba tagliata da poco, le sue narici bevvero l’effluvio di verde falciato, era inebriante. La rosa canina nella siepe attorno all’orto emanava una fragranza rosa e bianca di zucchero filato di cui non si era mai accorta. Il profumo delicato impregnava l’aria che la circondava. Lucia si senti felice. Corse verso un albero di albicocco e inspirò profondamente. I suoi frutti rotondi, arancioni, succosi erano pronti per essere colti. Voleva avvolgere il frutto con le sue labbra, assaporare la polpa dolce e morbida.
Il desiderio le riempì la bocca di saliva. Si guardò attorno. Era il crepuscolo, Lucia non doveva essere lì, era l’ora dei Vespri. Le venne da ridere lievemente. Osò. Colse un frutto ancora tiepido dal sole. Lo avvicinò alle labbra. Le sembrò avesse una lieve peluria. Delicatamente lo morse, lo gustò così zuccherino e leggermente acre, squisito. La polpa si disfò in bocca, la lingua l’avvolse facendo esplodere il sapore mentre la deglutiva. Lasciò che il succo le colasse sul mento. Il richiamo di due uccelli le rubarono l’attenzione. Rimase ferma ad ascoltare. Intervennero altri richiami. Sembrava un concerto serale. Guardò le cime degli alberi che si innalzavano verso il cielo. Il sole disegnava raggi di luce tra le nuvole e man mano discendeva per scomparire dietro le mura del monastero. Quanto tempo era passato da quando aveva visto l’ultima volta l’orizzonte ? Un’ onda di disperazione mai provata la inondò. Seguì un senso di solitudine ed abbandono insostenibile. Le si strinse lo stomaco, si appoggiò all’albero di albicocche e scivolò a terra. Una brezza tiepida si levò, la avvolse teneramente e la riempì di calore.
Capì in quell’istante che gli esseri umani si erano creati limitazioni, confini, separazioni per definirsi. In realtà erano Uno con tutto ciò che li circondava, animali, insetti, uccelli, vegetali, rocce, aria ed altri esseri umani. Erano singoli, distinti, irripetibili ed insieme creavano un unico coro. Non c’era un Lui. Erano Uno.
Scappò via, corse verso l’antico e largo corridoio per raggiungere le sorelle monache ormai nel refettorio. Le vecchie assi di legno, solcate dagli anni, scorrevano sotto i suoi sandali. Camminava in fretta guardando in basso. Avrebbe raccontato loro quello che aveva capito con tutta sé stessa. Dopo i vespri e prima della cena, radunate tutte insieme, le sorelle dovevano raccontare delle loro manchevolezze durante la giornata, momenti in cui loro stesse o qualcun’altra si era comportata inadeguatamente. Lei avrebbe raccontato umilmente, quello che le era accaduto. Avrebbe trattenuto la sua gioia. Si sentiva raggiante, piena d’amore.
Sentì i passi venire dal lato opposto del corridoio. Vide piedi larghi, contadini, a questa ora doveva essere suor Veronica. Lucia sentendo la gioia negli occhi, si trattenne. Alzò lo sguardo dal pavimento per accogliere la sorella, ormai di fronte.
La vide fare un passo indietro, inorridita. Il dorso della mano davanti alla bocca frenava un urlo. Si allontanò di qualche metro, ancora guardandola intensamente prima di voltarsi e correre verso dove proveniva. Lucia non capì, si girò con trepidazione dietro di sé. Non c’era nulla.
Vide il suo volto rispecchiato nella porta a vetri che portava alla biblioteca. Era il volto della disperazione. Aveva gli occhi spalancati. Il soggolo ed il velo erano scomposti rivelando ciuffi di capelli cortissimi. Il frontino era macchiato e sporco di terra. La tonaca, alzata, lasciava vedere le sue gambe nude, graffiate. Al posto del sorriso aveva un conturbante, rivelatore ghigno.