Sembrava un automa. Uno di quei giocattolini meccanici che i vecchietti vendevano, anni fa, nei giorni di mercato, agli angoli delle strade, tra le tante bancarelle e le tante donne che, prese dalle carabattole esposte, spesso pestavano i giocattolini che andavano su e giù, dondolando, sul selciato.
Piccolino, un cranio lucido e bitorzoluto, camminava velocemente, a piccoli scatti. Aveva una gesticolazione breve, animata, nervosa.
Avresti giurato che, nascosta dalla camicia candida, inappuntabile, che indossava in tutte le stagioni, avesse sulla schiena la magica chiavetta azionante il meccanismo che lo metteva in moto.
Non stava mai fermo: avanti e indietro dal negozio al magazzino, poco distante dalla bottega. Sì, perché il nostro ometto lavorava in una drogheria, una di quelle vecchie drogherie di paese, dal banco di legno sormontato da una fila di panciuti recipienti di vetro – appena velati da una polvere impalpabile che, come qualche bimba curiosa scopriva, era solo una patina di zucchero – colmi di incredibili caramelle dai dolcissimi nomi: scioglimbocca, lattemiele, cioccolatte… Quando entravi nel negozio eri sopraffatto da un profumo indefinito di sapone di Marsiglia e caramella mou, un odore che l’ometto si portava addosso da sempre.
Quanti anni avesse era proprio difficile stabilirlo, forse gli stessi anni del berrettino grigio che, nelle giornate più fredde, gli riparava la pelle tesa del cranio. Scrutava le persone che varcavano la soglia di bottega, con piccoli occhi scuri e luccicanti: sembrava ridessero, ma guardandoli meglio scoprivi un sorriso fisso, come congelato in un’identica espressione fermata da sempre nello sguardo. Quegli occhietti fissavano con insistenza, seguivano pungenti tutto e tutti, soprattutto le donne, con una strana dolcezza, a volte umilmente, altre con diabolica malignità, con verginea spudoratezza, con una curiosità che chiedeva perdono. Era terribilmente gentile, così gentile che a volte imbarazzava e sentivi un nodo in gola e non sapevi spiegarti perché, o forse sentivi che con i suoi modi affabili voleva farsi perdonare per il suo aspetto, per la sua ridicola esistenza fatta di pasticche e detersivi, di scatole di latta e acqua di rose. Riusciva esageratamente facile immaginare amori non corrisposti, rassegnata emarginazione, sogni arditi e insopportabili nell’essere solo sogni, immaginati nei lunghissimi pomeriggi dietro il banco. L’ometto meccanico dallo sguardo di cane si lasciava vivere così, con stanca dolcezza, con inespressa inquietudine, correndo a piccoli scatti verso la fine.