Grattarsi la nuca con entrambe le mani ghignando, o puntellarsi zigomo e tempia con le dita torcendo il sopracciglio, o far schioccare la lingua per dire di no, o accavallare le gambe piegando il dorso di una mano sulla coscia.
In famiglia i nostri morti vivono nei gesti. Di nome in nome, di padre in figlio, ci sono fili sempre uguali a tessere la trama. Alcuni si sfilacciano, altri si spezzano, facendo buchi sulla tela che somigliano al vuoto lasciato da quelli che sono spariti troppo presto, all’improvviso.
I nostri morti siedono a tavola e partecipano alla conversazione, suggerendo parole e modi di dire, ridono di risate di gola, di risate argentine. Continuano a leggere con noi le stesse storie, a piangere come bambini davanti a un film in bianco e nero, a tenere il tempo col piede ascoltando marcette, a battere le mani, gli occhi al cielo, quando il centravanti manca la porta.
I nostri morti non hanno bisogno di preghiere, pregano con noi, quando ne abbiamo voglia.