«Non se ne parla nemmeno: con questo pianoforte non suono!»
«Maestro… ma è sempre lo stesso gran coda.»
«Uno strumento musicale non è mai sempre lo stesso! Questo è troppo basso e non ha anima! Non lo sente?»
La mano danza sulla tastiera. Il direttore del teatro non capisce, non osa replicare. Cerca con gli occhi l’impresario, lo implora con lo sguardo. Poi tuona verso i poveri tecnici di scena, fermi in religioso silenzio: «Possibile che ancora non avete sistemato questo pianoforte?»
Il Maestro se ne va, seccato. L’impresario, senza dire niente, prende il telefono e fa un numero a memoria. A casa di Alberto lo squillo si mischia al chiasso di tre bimbe che si rincorrono. Lui è chino sulla meccanica di un pianoforte verticale appoggiata sul tavolo della sala da pranzo. Un panno pesante ne fa laboratorio e banco da lavoro. Si raddrizza. Afferra la cornetta.
«Pronto? No, no, non insista, me ne avete già combinate troppe.»
Una lunga pausa. Ascolta. Poi: «Va bene. Se è per il Maestro va bene. Che sia l’ultima volta, però.»
Riaggancia. Sospira. Prende la rubrica e compone un altro numero.
«Buongiorno principessa. Sì, sono io, purtroppo domani non potrò venire ad accordarle il piano… Sì, lo so, ma mi creda, è davvero un’emergenza.»
La principessa dissimula la sua contrarietà: «Va bene. Se è per il Maestro pazienterò!» Alberto esce. Carica la borsa sulla Dauphine, molto più comoda del sidecar del padre con cui girava da ragazzo. Dentro la trousse c’è tutto quello che gli serve: colla, cacciavite, tutta la sua arte e un diapason che non usa mai.
Sul palco del teatro trova due operai che stanno mettendo delle zeppe sotto le zampe del pianoforte. «Cosa fate?»
I due lo guardano.
«Il Maestro ha detto che il piano è troppo basso…», dice uno dei due.
«Togliete tutto e andate via, subito!»
Quando è solo, apre la cassa, guarda la meccanica, le caviglie, i piroli. Tocca, stringe, tira. Ogni tanto ripete un pezzo alla tastiera. Poi si ostina su due sole note. Sta ancora lavorando, quando arrivano il direttore e Arturo Benedetti Michelangeli. «Oh, Maestro, finalmente qualcuno capace di ridare l’anima al mio piano!»
Alberto sorride. È da quando non lavora più col padre che Michelangeli lo chiama così, alla pari.
Alberto era mio suocero. Poi un giorno anche lui è salito lassù, e Benedetti Michelangeli ha ripreso a suonare il pianoforte.