Il mare bianco Due

 

Difficile scrivere qualcosa sul romanzo di Salvatore Ronga dopo aver letto la preziosa recensione di Aglaja (clicca qui) Eppure dopo aver chiuso il libro, mi è rimasto dentro qualcosa di profondo che vorrei tentare di spiegare.
Le saghe familiari hanno sempre avuto per me un fascino particolare, sia che trattino di nobili e ricchi o famosi personaggi, sia che narrino le storie di persone sconosciute, note solo alla cerchia di parenti e amici che le circonda.
Salvatore descrive con semplicità ma con una scrittura raffinata le vicende della sua di famiglia, partendo dal 1912 fino al 1937. La protagonista principale è l’isola d’Ischia, da cui partono oppure restano i suoi abitanti. Coloro che partono sono in maggioranza pescatori che cercano fortuna all’estero, a Nuova York o a San Pedro, in California; quelle/i che restano sono donne, mogli, sorelle, madri, figlie, anziani padri, bambini piccoli. A volte quelli che vanno non tornano più, richiamano a sé il nucleo familiare e restano “all’America”.
Giovannina, che conosciamo ragazza nei primi del ‘900 ha un carattere fiero e poco incline a moine e svenevolezze, vive con il padre detto “Il Feroce”, che fa l’usciere comunale (professione quasi di pregio all’epoca), la madre Concetta e una marea di fratelli e sorelle, tra cui spicca per particolare vivacità Immacolata.
Il mare che circonda tutto: case, chiese, prigioni è ovunque, l’aria selvatica, salmastra, spesso pesante quando il fango intorbida le acque, intorbida anche la mente di Giovannina, cui capitano pensieri tristi, e comunque spesso irrisolti. La scomparsa di Aniello, suo primo fidanzato, ucciso dall’epidemia di Spagnola, la rende ancora più respingente e sospettosa. Quasi suo malgrado è costretta ad accettare, dopo mille ripensamenti, l’offerta di matrimonio di Vincenzo, fratello minore di Aniello, soprannominato da lei con disprezzo “il Moccioso”. Ma, nonostante le sue brusche riserve, il ragazzo riesce, con una buona dose di gentilezza e affetto, a portarla all’altare.
Minuziose le descrizioni degli abiti delle fanciulle da maritare, improntati alla pudicizia, seppur con qualche particolare attraente; infinita la preparazione del corredo, su cui lavorano tutte le donne della casa, tovaglie, lenzuola, federe impreziosite da ricami minuti e complicati – anche quando ero piccola io, metà anni ’50 e pugliese d’origine, la tradizione dei panni (lenzuola) a 12, a 24 a 36 (in termini di pezzi), era imprescindibile in ogni famiglia rispettabile.
Tutti i personaggi del libro sono delineati con uguale precisione: a cominciare dalla zia Chiatta, così detta per le sue forme strabordanti, rimasta zitella che tiranneggia chiunque, soprattutto la povera Immacolata designata a farle da balia. Le imposte che si chiudono e riaprono nella stanza di Giovannina, rispecchiano, come la superficie del mare che sale o si ritira, il suo stato d’animo.
Nel 1937, con i due figli avuti da Vincenzo, un maschio e una femmina, lui sempre a San Pedro – è rimasta incinta le due volte in cui è tornato a Ischia – a Giovannina, ormai quasi matura negli anni ma “con i capelli di una bambina”, si impone una scelta rimandata per troppo tempo e diventata ormai improrogabile. Quell’incertezza, quella roba che ti scava dentro e ti consuma, quella paura del domani, della distanza e del distacco, le ho sentite mie, ragazzina barese trapiantata prima a Milano, poi a Bolzano, terra allora quasi straniera in cui quasi tutti parlavano una lingua non mia.
Grazie a Salvatore, che con il suo romanzo limpido e potente, ha raccontato la storia della sua famiglia e un po’ anche la mia.

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