Una leggera brezza di vento trasportava nell’aria il profumo delle rose e del mirto.
Nell’oscurità della notte, Giulia, avvolta in una tunica di garza bianca, procedeva con passo leggero e sicuro, rasentando il muro dell’ampia esedra semicircolare (nel lato settentrionale dell’isola), che costeggiava la vasta area del giardino centrale. Accelerando l’andatura, l’attraversò quasi di corsa, raggiungendo un po’ ansante il lungo corridoio con pareti di reticolato e intonaco colorato. Si fermò per riprendere fiato e ad ascoltare se venisse qualcuno. Ma gli schiavi e i soldati erano profondamente addormentati, stanchi e sazi, dopo una notte di abbondanti libagioni e danze sfrenate per la vittoria di Augusto.
Dall’alto del pianoro aveva assistito per pochi istanti a quelle scene di giubilo, che le provocavano solo ondate di odio più feroci verso suo padre, che l’aveva relegata a vivere per sempre una dorata segregazione nell’isola Pandataria*, lontana dai fasti raffinati di Roma.
Per lei Augusto aveva emanato la Lex Iulia, togliendole ogni possibilità di godere della libertà e dei lussi che la sua condizione regale le permetteva di diritto. Con un gesto di stizza si scostò una ciocca di neri e ricci capelli dalla fronte e riprese il suo avanzare cauto e felpato.
Dopo aver superato l’area porticata, scese i gradoni di tufo ricoperti di cocciopesto e si fermò in corrispondenza dell’accesso dell’ala a nord della Villa. Guardò verso la breve valletta che la separava dal porto e dal centro abitato, che nessuno poteva attraversare pena la morte, e rimase in attesa, socchiudendo gli occhi, che si erano ormai abituati al buio.
Soldati di guardia dormivano sdraiati scompostamente con le spalle appoggiate al muro che delimitava il pendio verso il mare, con le teste penzoloni e le bocche aperte in un ghigno rantoloso.
Fra non molto, poco più di un’ora, sarebbe stata l’alba e avrebbe dovuto far ritorno in fretta nelle sue stanze, dove riposavano le ancelle premurose che al mattino l’avrebbero accompagnata alle terme..
Quando aveva lasciato la sua stanza poco prima, Silvia, la sua schiava fidata, dormiva sdraiata su un fianco su una pelle di leopardo ai piedi del suo talamo. Il suo viso era in ombra e il respiro regolare: dormiva o forse fingeva per permetterle di allontanarsi indisturbata.
Era stata proprio Silvia a condurla due giorni prima nella discesa mare nel lato nord della Villa, dove approdavano imbarcazioni cariche di spezie, profumi, gioielli, sete e tappeti, tutte mercanzie pregiate che provenivano da paesi lontani per lei.
Tante e tali ricchezze non riuscivano a colmare la sete di amore e di libertà che la sua giovane età anelava a soddisfare. Di solito sceglieva i pezzi più belli nelle sue stanze adiacenti il triclinio, portati da uno stuolo di schiave eccitate e festose.
Ma oggi era particolarmente desiderosa di fare qualcosa di audace e insolito e si era fatta accompagnare al limite della scala a cui accedevano dal mare gli schiavi che scaricavano le merci.
Il suo interesse non era rivolto alla quantità di oggetti, suppellettili e ornamenti che passavano sotto i suoi occhi annoiati, ma verso i volti degli uomini sudati e contratti. La colpiva l’andatura strascicata e lenta sotto il peso delle casse colme, nel salire e scendere le scale ripide che portavano al magazzino.
Si sentì ad un tratto stanca e dolente come fosse stata anche lei parte della colonna che andava su e giù senza posa sotto il sole cocente.
Si appoggiò alla balaustra di legno che separava il banco roccioso dal pianoro sottostante e sovrastava la scala di tufo.
Precipitò proprio nell’istante in cui uno schiavo si apprestava a scendere a mani vuote.
Al grido di lei, si girò di scatto e si spinse in avanti per attutire con il suo corpo la caduta della donna che aveva notato salendo e che credeva fosse una schiava.
Era rimasto colpito dalla bellezza e dal candore della sua pelle, non bruciata dal sole come quella delle altre. Mentre la riceveva nelle sue braccia, sentì il profumo dolce e la morbidezza del corpo contro il suo. La donna rimase con il viso appoggiato alla sua spalla per qualche istante, troppo perché lui non sentisse il desiderio di tenerla stretta a sé più a lungo.
Gli occhi di lei si alzarono a guardarlo, la sua mano scivolò lungo il braccio poderoso dello schiavo come una carezza e senza dire una parola si sciolse lentamente da quell’abbraccio e si allontanò, seguita da Silvia, sollevata dal pericolo scampato dalla sua sovrana. Giulia camminava eretta e silenziosa, ma il suo cuore batteva impazzito.
Era tanto che non si trovava tra le braccia di un uomo! Il contatto e lo sguardo di lui l’avevano smarrita. Avrebbe voluto restare per sempre rannicchiata nell’incavo del petto sconosciuto, sentirsi protetta e desiderata come una donna qualunque dal suo uomo!
Tutti nell’isola sapevano che lei era la figlia dell’imperatore e il perché fosse lì, e gli uomini si tenevano lontani da lei per paura del castigo.
Ma quell’uomo, ignaro, l’aveva toccata per salvarla: non era colpevole e per fortuna nessuno dei soldati era nelle vicinanze in quel momento. Non sarebbe trapelato nulla e la nave sarebbe ripartita due giorni dopo per Roma senza conseguenze per lui. L’imbarcazione era ancorata nel porto a sud della Villa e gli schiavi non avrebbero avuto più occasione di ritornare in quella zona, una volta scaricata la merce.
Giulia, appena fuori dall’esedra belvedere, trasse in disparte Silvia e la implorò di portare un messaggio allo schiavo alto e dagli occhi color della pervinca: che si trovasse all’ingresso dell’ultimo corridoio alla fine della valletta fra due giorni due ore prima dell’alba, dopo i baccanali per la vittoria di Augusto, per un incontro con la giovane donna da lui salvata.
Un soldato si alzò barcollante, borbottò qualcosa e poi cadde a terra bocconi di colpo. Giulia si appiattì contro il muro e vi rimase finché non lo sentì russare di nuovo. D’un tratto sulla sommità del pianoro si stagliò una sagoma alla luce della luna e vi riconobbe l’uomo che attendeva.
Questi, scavalcati i corpi dei dormienti ubriachi, entrò nel corridoio in ombra e si sentì toccare un braccio da una mano di donna. Riconobbe il profumo inconfondibile prima ancora di vederla e si lasciò guidare in silenzio in uno dei fienili del maneggio a quell’ora incustodito.
Alle prime luci del giorno, costeggiando un cordone di muro di tufo, che lo proteggeva dagli sguardi dei rari passanti intontiti di vino e di sonno, fece ritorno alla nave giusto in tempo per ripartire.
Non la vide più, né seppe mai il nome della giovane donna amata appassionatamente solo per poche ore.
Si dice che Giulia ebbe un figlio, forse nato da quell’incontro, certo è che la si era vista tornare spesso sul pianoro a guardare a lungo il porto e l’orizzonte, accarezzando il ventre gonfio, avvolta in una tunica di garza bianca.
*Antico nome dell’Isola di Ventotene dove erano confinati i membri della famiglia imperiale in disgrazia
coinvolgente