Un neuropsicologo dell’Università della California, Charan Ranganath, direttore del Laboratorio di Memoria Dinamica, ha pubblicato a febbraio scorso un libro che è subito diventato un bestseller: “Why We Remember” (perché ricordiamo). Ho letto un ricco articolo sull’argomento, con confronti tra il libro di Ranganath e le tesi di altri psicologi della memoria, sul New Yorker del 20 maggio ’24. Il testo mi ha colpito tanto da riferirlo in breve ad alcuni amici. Uno di loro, intrigato, mi ha detto: “Non posso chiederti di tradurlo tutto, ma potresti scrivere un sunto per la Rivista?”
Eccomi a darvi i punti salienti della ricerca da semplice lettrice, non avendo competenze in neuropsicologia. Ranganath sostiene che la memoria umana non si evolve per tenere una registrazione di tutte le vicende, ma per estrarre informazioni necessarie alla sopravvivenza. Dobbiamo ricordare quali cibi sono velenosi, quali persone sono più propense ad aiutarci o a tradirci. La memoria è adattiva, e “quelli che ci sembrano difetti di memoria, sono in realtà le sue funzionalità”. In determinate circostanze, è più utile dimenticare.
Già dagli inizi del 1800 sono stati tentati esperimenti sulla memoria, in cui la cosiddetta “curva dell’oblio” mostrava che una grande quantità di informazioni svanisce entro 60 minuti. Molte delle nostre esperienze immediate saranno dimenticate in meno di un giorno. Non solo dimentichiamo molto di quel che ci succede; anche le cose che ricordiamo sono spesso errate.
Gli esperimenti condotti dallo psicologo cognitivo Frederic Bartlett (Università di Cambridge, UK, prima metà del 1900) hanno mostrato come la memoria sia non una semplice registrazione del passato, ma piuttosto una “ricostruzione immaginativa”. Ranganath dice che ripetuti atti di richiamo mnemonico sono “come una copia di una copia di una copia, sempre più sfocati e suscettibili di distorsioni”.
L’emozione gioca un ruolo importante, particolarmente nel recupero delle “memorie episodiche”. Uno psicologo canadese, Endel Tulving, ha fatto una distinzione fra due tipi di memoria, quella episodica e quella semantica. La memoria episodica si attiva quando ricordiamo esperienze. Quella semantica è il richiamo di fatti o conoscenze che non richiedono il contesto esperienziale in cui sono avvenuti. La memoria episodica è una forma di “viaggio nel tempo mentale”: entriamo in uno stato di coscienza simile a quelli in cui ci trovavamo quando abbiamo immagazzinato i ricordi. La memoria episodica di Proust era attivata dal profumo dei biscotti Madeleines. Anche il gusto e la musica innescano questo tipo di memoria, che io definirei “poetica”.
Ora capite dove tutto questo va a parare. Sono in corso infiniti tentativi di creare modelli di apprendimento automatico che simulino il modo in cui il cervello umano impara. Si parte dallo schema base: “Un’aquila è un uccello. Ha piume, ali, un becco e vola”. Così pure un corvo, un falco. Il problema sorge col pinguino, che ha piume, ali, un becco e…nuota. Questa informazione discordante può far dimenticare alla macchina quel che aveva imparato prima. Per superare tali debolezze dei modelli automatici, bisogna addestrare il computer su una colossale quantità di dati.
Noi umani, invece, superiamo queste contraddizioni con una falcata. Ranganath attribuisce la nostra destrezza alla capacità di alternare memoria semantica e memoria episodica. Ne risulta che il nostro cervello si aggiusta molto più rapidamente al mondo reale. “Dimenticare non è una perdita di memoria; è la conseguenza di processi che permettono al nostro cervello di dare priorità a informazioni che ci aiutano a navigare e dare un senso al mondo”.
A volte un fallimento della memoria può produrre esattamente quel tipo di esperienza rilevante che fisserà un’informazione nella nostra mente. Ecco la chiave per attaccare memorie importanti a qualcosa di inconfondibile, come un foglietto adesivo color rosa shocking.
Un corollario a questo studio è il termine “contagio sociale”, che descrive le distorsioni della memoria. Un esperimento ha mostrato come basti un solo individuo dominante che parla con sicurezza per infettare gli altri con disinformazioni. “Una volta che le distorsioni si insinuano nelle narrazioni condivise, è incredibilmente difficile sradicarle”. Le teorie cospirative sulle elezioni 2020, in cui Trump avrebbe vinto, o su Barack Obama, che sarebbe nato in Kenya, resistono ancora ai ripetuti smascheramenti.
Il termine “memoria collettiva” si riferisce a memorie condivise ed è un fattore chiave nell’identità di gruppo. Gli stessi fatti sono ricordati diversamente da differenti classi sociali o da diverse religioni.
Le esperienze passate, specialmente quelle della prima infanzia, ci formano, anche se non sono ricordate, e risiedono nel subconscio. La nostra identità è dovuta alle memorie coscienti e a quelle silenti, l’immenso substrato subliminale di tutto ciò che abbiamo dimenticato, ma non perduto.
bello!
Molto interessante, grazie!