E’ il primo racconto scelto tra quelli prodotti alla fine del Corso che si tiene presso la Scuola di Scrittura Narrativa di Valeria Viganò, terminato a maggio 2024
Il liquido era caldo. Ne percepiva il calore attraverso il vetro spesso del bicchiere che stringeva fra le manine paffute. Poi, lo aveva portato alla bocca e aveva fatto scivolare giù per la gola il contenuto. Le iridi, scure come chicchi d’uva, si erano illuminate di colpo. Romano non aveva mai assaporato nulla di così buono. Sulla lingua percepiva ancora la cremosità di quel nettare bianco e dolce che aveva appena ingerito. Bevve con foga il resto, vuotando il bicchiere. Il padre, alle sue spalle, proruppe in una fragorosa risata. Fu allora che decise. Da grande, avrebbe fatto il fattore. Dirimpetto, la mammella gonfia della vacca gocciolava ancora nel secchio di legno disegnando piccoli dischi di burro.
Romano non era tipo da città e suo padre lo sapeva bene. Ma dopo la morte della moglie, Antonio era tornato a Roma, gettandosi nel lavoro e ignorando la nube densa di pensieri che gli gravava sul capo. Così, a quella casa di campagna dove aveva vissuto momenti indelebili con la sua famiglia, non era più tornato. Per fortuna, c’era Jole ad aiutarlo con il figlio. Veniva da Napoli, portando con sé un sorriso accogliente e l’accento partenopeo. Romano gli si era aggrappato alle gambe, spingendo la testa ricciuta sul grembiule a quadri. Aveva respirato profumo di mamma, per questo gli era piaciuta subito. E con quell’odore Romano ci cresceva, mentre la sera il padre rincasava tardi, col volto appesantito e stanco da una vita che sembrava non appartenergli più. Una mattina, Jole s’era presa coraggio e mentre gli versava il caffè nella tazzina di ceramica, l’aveva guardato fisso nelle pupille cerchiate di viola e aveva detto: «Ragioniere, non potete andare avanti così. Non vedete che la creatura è triste?». Antonio, per tutta risposta, aveva chinato il capo, quasi ad ammettere le sue colpe di padre mancato. Quelle parole lo tormentarono così tanto che, a fine giornata, prese una decisione repentina. Nel giro di una settimana, Antonio Laudadio vendette l’appartamento nella capitale e si trasferì in pianta stabile nella casa di campagna dove aveva vissuto anni prima con sua moglie. Non scordò mai lo sguardo riconoscente del figlio appena sceso dalla vecchia fiat 128 verde bottiglia. Romano si era tolto in fretta e furia le scarpe e aveva iniziato a ruzzolare sul pendio della collina per la contentezza. La sera, Jole gli aveva tolto i fili d’erba impigliati fra i ricci poi, dopo un bicchiere di latte, l’aveva spedito a letto. Prima però, Romano s’era fermato ad abbracciare forte il padre e, dopo tanto, l’aveva finalmente sentito ridere.
La vita aveva fatto il suo corso e nel paese incastonato fra le colline laziali, Romano s’era fatto uomo, coi riccioli castani striati di biondo sole e il corpo asciutto, la pelle scura di melanina per il lavoro nei campi. Asciugò il sudore col polso, la vanga ancora stretta fra le mani, poi con lo sguardo fiero accarezzò le fronde degli alberi scosse dal grecale che soffiava da nord-est. Il giovane aveva preso il diploma di perito agrario così da potersi occupare della ristrutturazione dei terreni circostanti e rimodernare il sistema d’irrigazione. Grazie ai suoi studi, Romano aveva lavorato e trasformato quel fazzoletto di terra. Alberi da frutto, filari d’uva, un giardino di rose tappezzanti. Adesso questo era il suo posto nel mondo.
Accadde una mattina presto, che l’amore bussò alla sua porta. La giovane nipote di Jole era salita da Napoli per imparare il mestiere e Romano, al primo sguardo, cadde preda dei suoi occhi smeraldo. Lina, col suo volto spigoloso e fiero, aveva sentito le guance imporporarsi ma aveva teso la mano per presentarsi. Nei giorni seguenti, Lina osservava di soppiatto Romano lavorare nel vigneto, poi appena lui se ne accorgeva, distoglieva lo sguardo e tornava lesta alle sue occupazioni. A tavola, i due sedevano uno di fronte all’altra e lasciavano parlare Antonio e Jole, contentandosi di scambiarsi fugaci occhiate. Una sera però, approfittando di un momento di solitudine, Romano aveva fatto il giro del tavolo, aveva afferrato le mani di Lina fra le sue, più ruvide, e con voce tremante le aveva detto: «Fra qualche anno ti sposerò. Vuoi?». La giovane aveva annuito senza esitare e gli aveva regalato un bacio a fior di labbra.
Dopo appena un anno, i giovani avevano suggellato la loro unione nella chiesa di Santa Maria di Costantinopoli poi, erano risaliti fino alla Certosa di San Martino dove, in basso, il golfo di Napoli si stendeva prepotente in tutta la sua bellezza. Romano aveva stretto Lina, finalmente sua, fra le braccia e l’aveva baciata. Sotto di loro, i raggi del sole tiepido di giugno si frangevano nel blu del mare, appena increspato dal vento.
Certo, il ritorno in campagna non era stato facile perché a Lina mancava il calore della sua terra ma poi, grazie all’aiuto di Romano, aveva imparato ad apprezzare la vita campestre. La mattina, Lina raccoglieva grossi cespi di lattuga, li lavava tre volte nella grande bacinella azzurra e infine, separava tutte le foglie che condiva con abbondante olio e aceto. La coppia cenava così, insieme a una fetta di pane e formaggio caprino e un bicchiere di latte. Al primo sorso, dolce e pastoso, anche a Lina si erano illuminati gli occhi come smeraldi e con il suo accento partenopeo aveva detto: «Mi piace assai». Nel nido d’amore che Romano aveva costruito per loro, la vita era scandita da piccoli gesti e momenti di idilliaca felicità. L’incredibile devozione che Romano metteva nella cura delle piante aveva finito per contagiare anche Lina. I due lavoravano alacremente spalla a spalla tutto il giorno, poi la notte, nonostante la stanchezza, si amavano forte, ebbri di passione.
In un freddo pomeriggio di novembre, venne al mondo Diego, il primogenito, col viso contornato dalle stesse onde nere della madre. Romano, in preda alla gioia, aveva piantato un seme di rosa in un’anfora di terracotta poi aveva lastricato quella parte di terreno con grossi ciottoli bianchi. Col sopraggiungere della primavera, tanti petali cremisi erano esplosi dai boccioli come pennellate di colore.
A sei anni, Diego giocava ostinato con un piccolo trattore, le guance arrossate dal vento, lo sguardo caparbio e fisso di fronte a sé mentre scendeva a tutta velocità per il pendio della collina. Si rotolava nell’erba, ne strappava i fili poi correva verso il padre, mostrando fiero il suo tesoretto. Lina, sulla soglia di casa, si tamponava con un canovaccio la fronte sudata mentre, sotto il grembiule a fiori, il pancione si faceva sempre più prominente. Jole, ormai anziana, l’aiutava come poteva nelle faccende domestiche ma le mani nodose e curve sotto il peso degli anni non le permettevano granché. Antonio invece, era passato a miglior vita, lasciando nel cuore di Romano il rammarico di non aver seguito tutti i suoi insegnamenti. Poi, una mattina di febbraio, era nata Luce portando con sé un anticipo della primavera. Romano, per l’occasione, aveva piantato un altro seme nel suo viale delle rose. Passavano gli anni e alla famiglia si aggiungevano trovatelli di varie specie, due maremmani, tre meticci e una colonia di felini in costante aumento. A diciotto anni, Diego aveva portato a casa la sua innamorata, Vita, una giovane di origini siciliane, stabilitasi con la famiglia anni prima nei dintorni. Ma Vita tornava sempre al suo mare, incapace di starne lontana troppo a lungo. Certe volte, Diego la sorprendeva con gli occhi fissi verso l’orizzonte, i capelli scossi dallo scirocco, la schiena eretta, e quando le chiedeva cosa stesse facendo, lei rispondeva in una lingua antica: «Sento u scrusciu du mari». Anche Luce aveva trovato l’amore giovanissima. Il fortunato era Mario, un ragazzo d’indole mite che abitava nel paese oltre la collina. Di mestiere faceva il pizzaiolo e spesso capitava che la famiglia allargata si ritrovasse la sera a mangiare quel che il giovane aveva impastato il giorno prima. Romano, seduto a capotavola, osservava con affetto i figli, dispensava consigli ma lasciava loro il giusto spazio. Lina, accanto a lui, gli stringeva il braccio, fiera di ciò che avevano costruito. La natura aveva fatto il suo corso e la vita anche.
Poi, una mattina, proprio sotto il melograno in fiore, Romano la sentì. Una fitta lancinante all’addome lo mise in ginocchio, mozzandogli il fiato e le parole di bocca. Lina l’aveva subito soccorso, afferrandolo per gli avambracci e con l’aiuto di Diego, l’aveva portato all’ospedale Sant’Andrea. In macchina, il dolore aveva lasciato spazio alla quiete e, come dopo una tempesta, Romano non aveva sentito più nulla. Il referto però, lo aveva messo sottosopra e, infine, aveva sentenziato la diagnosi. Da mesi, una pallina si era aggrappata alle pareti del suo pancreas, ostruendo la normale attività digerente. Andava tolta, senza altri indugi. Di colpo, a Romano la vita sembrò un treno in corsa.
Dopo l’operazione, il ritorno a casa non aveva sortito l’effetto rinvigorente che tutti speravano. Romano passava le giornate seduto su una panchina di legno, sotto il nespolo, a scrutare un punto lontano, lì dove le colline si mischiavano con l’orizzonte e la nebbia lasciava intravedere le punte del Soratte. Lina e i due figli lo accudivano come possibile, ma Romano aveva innalzato un muro, chiudendosi nel suo silenzio. Mangiava poco più di un boccone, quel tanto che il suo pancreas ridotto gli concedeva e si rifugiava nei campi. Da lontano, Lina lo osservava camminare in mezzo ai filari di viti, tastare un acino e proseguire a passi lenti verso la fattoria. Col trascorrere dei mesi, il corpo si asciugò, lasciando intravedere le spalle ossute e la chioma, una volta bionda riccioluta, divenne rada e canuta. Nel frattempo, l’arrivo di due nipoti aveva aperto uno spiraglio di luce nella vita spenta di Romano. Ma non era bastato.
Un giorno, Lina gli aveva portato una tazza di latte tiepido appena munto, credendo di fare un gesto di premura. Al primo sorso, Romano aveva storto la bocca dicendo: «Non è dolce». Alla vista dell’espressione affranta della moglie, Romano aveva compreso di aver esagerato e i due si erano ritrovati a piangere, uno accanto all’altra con le mani giunte, in silenzio. Allora, approfittando della ritrovata intimità, Romano le aveva chiesto: «Ce la farai da sola, a prenderti cura di tutto questo?». Lo sguardo di Lina aveva abbracciato le fronde degli alberi, percorso il vigneto e indugiato sul viale delle rose poi, senza proferire parola alcuna, aveva annuito.
Una mattina di luglio, mentre fuori il sole rovente fendeva le pietre e le cicale frinivano, nel suo letto Romano chiuse gli occhi per sempre. Il corpo giaceva supino, ridotto all’osso da quel male che gli aveva tolto la fame e la vita. Mentre la sua anima trovava finalmente pace, la collina che per cinquant’anni Romano aveva abitato, si eclissò nel silenzio assordante. Intorno, tutto divenne immobile.
Ancora oggi, di tanto in tanto, Lina siede sulla panchina di legno con una tazza di latte tiepido appena munto, rivolge lo sguardo verso l’orizzonte poi indugia sul viale delle rose. E mentre una fitta di dolore gli fende il cuore, giura di sentire la risata cristallina di suo marito che, solleticata dal vento, risale il pendio della collina.
L’intensità degli affetti si sente, agevolata anche dal rapporto fecondo con la natura;ogni tanto un fraseggiare un po’ arcaico,toglie freschezza,ma complimenti!!