Un grande del Novecento John Fante

Probabilmente non molti, se interrogati sui grandi scrittori del ‘900, si ricorderanno di John Fante. Citeranno altri libri, magari di lettura più ardua, magari senza neppure averli letti: l’illeggibilità è uno grandi feticci del secolo scorso, di cui siamo eredi, assurto a sinonimo del genio, a punto di non ritorno. Eppure John Fante è stato l’autore di splendidi romanzi, che però appassionano, avvincono, anche se incentrati su temi non propriamente originali (la miseria e la durezza dell’infanzia, l’apprendistato alla scrittura che è al contempo apprendistato alla vita, la fuga dai vincoli famigliari e la loro tenacia, la riconciliazione con il proprio passato), temi comuni, ma non comune è la forza, anche stilistica, con cui vengono rivisitati, nell’intreccio dei toni, che continuamente svariano dal comico, soprattutto nella versione grottesca, al patetico e al tragico, nell’uso di modalità di scrittura decisamente moderne, mai fini a se stesse, mai intese quale mero esercizio virtuosistico, mai esibite. E’ stato l’autore di libri ricchi di sentimento, pur nell’asprezza delle vicende narrate, e forse questo è il peccato più grande per una temperie che ha relegato i sentimenti alla letteratura di serie “b”. E’ stato uno scrittore sempre fuori tempo, e proprio grazie a ciò di lunga durata, sottratto alle mode e costantemente attuale, che ha conosciuto brevi stagioni di gloria, l’ultima grazie a Charles Bukowski, senza il quale probabilmente le sue opere sarebbero definitivamente uscite dal circuito, o dal circo, editoriale. Un vero peccato, perché pochi come John Fante hanno voluto e saputo trasfondere la purezza in letteratura, impastandola con il fango da cui viene nutrita.
“Aspetta primavera, Bandini”, “Chiedi alla polvere”, “La confraternita dell’uva”: tre titoli che vi consiglio con la certezza che resterete incantati, alleggeriti del peso dei luoghi comuni.

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