Il diabete letterario

Ho cominciato a leggere Joyce mentre giravo per l’Irlanda in autostop. Passeggiavo per Dublino, lungo il fiume Liffey, per il parco di St. Stephen Green, entravo nei pub di Grafton Street e mi pareva di essere un personaggio uscito da uno dei suoi racconti. Ricordo di aver cominciato a leggere l’Ulisse a Dingle, sulla costa sud-ovest. Era una domenica di grande vento e pioggia. C’era una fiera in paese, con gente e cavalli che arrancavano nel fango dei viottoli, scavati tra campi d’erba bagnata. L’erba era di un verde mai visto, lucido e smeraldino. Tanto era il freddo che mi ero infilata subito nel letto del bed & breakfast, col libro e il vocabolario. Passai così tutto il pomeriggio e la sera, scordandomi di cenare.
L’inglese di Joyce era impervio. Slang irlandese, proverbi, ritornelli, frasi idiomatiche spesso incomprensibili, giochi e bisticci verbali. Gli artifici di Joyce erano per me fonte di continuo stupore e ammirazione, a parte il lavorio frenetico sul vocabolario. Non riuscivo a pensare che si potesse osare oltre. Joyce osò, come sappiamo, con Finnengans Wake, opera che mi rifiutai di leggere in inglese. Per quanto ammirassi il suo ardire avanguardistico, per me letteratura era pur sempre una promessa di leggibilità, non un esercizio di penitenza gesuitica.
Alcuni anni dopo mi trasferii per lavoro a New York. Abitavo una casetta di legno stile coloniale lungo il fiume Hudson, a nord della metropoli, e facevo ogni giorno la pendolare per Manhattan. Gli elementi ambientale e atmosferico hanno sempre concorso alle mie iniziazioni letterarie. C’era stata una forte nevicata notturna e una mattina di lunedì il nostro villaggio si era risvegliato sotto un metro e mezzo di neve. Dalla finestra vedevo il vicino che spalava con vigore tra le file di macchine parcheggiate e completamente coperte dalla neve. Mentre mi preparavo il caffè lungo, il telegiornale annunciava la nevicata storica su New York, con immagini delle sue avenue deserte e sepolte sotto un alieno strato di panna. Pareva un paesaggio preistorico, col silenzio inorganico della pietra, dei rossi canyon imbiancati di neve.
Da quando ho smesso di fumare, la mia ossessione è quella di rimanere sprovvista di carta da leggere. Scesi dal vicino e mi feci prestare un volume dalla sua scarna biblioteca. L’unico libro che trovai digeribile, tra le guide del provetto pescatore e atlanti dei fiumi e animali d’America, fu un saggio di Hemingway sulla tauromachia, Morte nel pomeriggio. Non avevo mai letto Hemingway prima, perché pensavo fosse uno scrittore facile, commerciale. Il mio livello standard essendo l’Ulisse in lingua originale, snobbavo tutto quel che chiunque avrebbe potuto leggere! Insomma, ci voleva una storica nevicata per costringermi in casa con un libro di Hemingway. Mi misi in poltrona con la tazza di caffè fumante e cominciai. La lettura mi prese subito, anche perché non avevo bisogno del vocabolario. Niente parole preziose, niente artifici e trucchi. Nel silenzio perfetto della casa, ovattata dalla neve, le frasi di Hemingway cadevano precise e ritmiche come ganci sinistri.
“A quell’epoca facevo i primi tentativi di scrittore e trovavo che la maggiore difficoltà consisteva nel buttare giù ciò che veramente accade nell’azione… la cosa vera, il seguito di movimenti e fatti che ha prodotto l’emozione e che sarebbe altrettanto valida dopo un anno o dopo dieci anni o, se si ha un po’ di fortuna e la si fissa con purezza, per sempre”.
Questo non era un linguaggio facile, era semplice e preciso. Poche parole vere che andavano a segno. Nessuna dissociazione tra lingua scritta e parlata. Un senso del vivere e dello scrivere energico, non ripiegato su se stesso, affrancato dalle pastoie della tradizione europea.
Il giorno dopo, liberate le vie di transito dalla neve, in un intervallo di lavoro entrai in una libreria di Madison Avenue e feci incetta di tutte le edizioni Scribner’s di Hemingway che riuscii a trovare. Poi fu la volta di Mark Twain, Whitman, Melville, Thoreau. Ezra Pound mi diede la chiave per capire. Questo poeta a cavallo tra due culture e due modi di rappresentare il reale, tentò di riunificare due concezioni del realismo europeo, divise da sei secoli di storia letteraria: la concezione dantesca e quella flaubertiana. Forse solo un americano poteva cogliere nello stile di Dante una prospettiva di rinascimento per la letteratura moderna. Pound aveva imparato da Dante e dal concetto medievale di visione che la riproduzione esatta di ciò che vediamo, la visualizzazione, dà forza e chiarezza al verso (The Spirit of Romance). Non considerando scontata o trapassata l’esperienza del realismo medievale, Pound seppe vedere con occhi nuovi anche quella del realismo flaubertiano.
“Flaubert inventò una specie di rimedio specifico per il diabete letterario. Iniezioni di questo specifico a Maupassant e iniezioni più diluite a Kipling, Steve Crane, ecc., impedirono un bel po’ di diabete (zucchero al posto sbagliato) ma la forza di questa cura fu indebolita dal tempo”. (Lettera a Joyce)
Quando conobbe Joyce, Pound vide nello stile duro e scarno dei suoi racconti una risposta flaubertiana al traboccare di ornamenti e sentimenti che opprimeva la letteratura di lingua inglese. Quando Joyce mostrò a Pound il work in progress che sarebbe poi stato Finnegans Wake, Pound si tirò indietro. Gli pareva che quel lavoro potesse interessare soltanto pochi specialisti, e che Joyce avesse perso ogni connessione col reale. Si stava ripetendo con Joyce quello che era accaduto a Flaubert: si era talmente isolato nella sua delectatio stilistica che le parole non corrispondevano più alle cose.
Pound accusò Joyce di gongorismo: “Il difetto del gongorismo è qualcosa di più profondo dell’ornamento eccessivo, o piuttosto tutte le forme di eccesso di particolari si possono considerare sotto l’equazione generale del gongorismo”. Hemingway avrebbe detto: “La prosa è architettura, non arredamento d’interni, e il barocco è finito”. L’Ulisse per Pound era la fine, il compimento di un’epoca letteraria, “un certificato di decesso”. Dopo Joyce e i poeti imagisti, ad applicare la cura anti-diabetica di Flaubert non era stato più un europeo, ma un altro americano: Hemingway. (Pound/Joyce, lettere)
Un secolo prima, Thoreau aveva sostenuto che la terra europea era esausta, mansueta e civilizzata come la sua letteratura, mentre una nuova, immensa pianta tropicale stava sorgendo dalle sue radici avvizzite.(Camminare)
Romano Bilenchi, in una intervista pubblicata su Linea d’Ombra nel 1988, disse che Hemingway aveva risolto la crisi della narrativa creata da Joyce. Non specificò il senso della sua affermazione, ma possiamo ipotizzare che si riferisse alla tendenza, iniziata da Flaubert, a far valere la prospettiva soggettiva, lo sguardo interiore, che raggiunse con Joyce il suo culmine, il punto critico. Dopo il “flusso di coscienza” di Molly Bloom (il famoso monologo alla fine dell’Ulisse), si chiude l’ultima frontiera dello sperimentalismo psicologico. Hemingway tenterà di rifare il verso a Joyce nel monologo di Mary Morgan, in Avere e non avere, ma senza efficacia.
Il terreno sicuro di Hemingway stava là fuori, nei boschi e torrenti del Michigan, sui monti spagnoli, nelle colline africane. Con Hemingway l’eroe torna ad essere la realtà fuori di noi. La terra non era desolata, come T.S. Eliot aveva scritto. Hemingway cercò fuori di sé l’armonia perduta dentro. Cercò nell’azione, nella lotta con gli animali e con gli uomini, le sensazioni elementari che lo liberavano dal disagio introspettivo.
“Questa roba del flusso di sciocchezza è FLUITA abbastanza”.
“Ne ho quasi abbastanza di quella diarrea di coscienza”.

Sembrano freddure di Hemingway, queste frasi scritte da Pound nelle sue lettere. La sfida sta fuori, sotto il sole, che sorge sempre, eterno e biblico come il mare:“…. la Corrente del Golfo scorrerà come sempre ha scorso, dopo che i pellerossa, spagnoli, inglesi, americani e cubani e tutti i sistemi di governo e ricchezza e povertà e martirio e sacrificio e venalità e crudeltà saranno scomparsi come la chiatta carica di rifiuti variopinti e maleodoranti, piegata sul fianco, rovescia il suo contenuto nell’acqua azzurra che si fa verde pallido …. e le palme delle nostre vittorie, le lampadine logore delle nostre scoperte, i preservativi usati dei nostri grandi amori, galleggiano, privi di significato sullo sfondo di un’unica, durevole cosa, la Corrente”. (Verdi colline d’Africa)
Hemingway non fu sempre all’altezza del suo proposito di stile, in cui le parole non siano astrazioni, ma lingua concreta, immagini/correlativi fisici. Ciò dimostra quanto fosse ardua l’impresa. La sua lezione è stata così fertile che tuttora permane in scrittori che non lo considerano maestro. John Gardner, nel suo libro Il mestiere dello scrittore, riecheggia da vicino i concetti di stile hemingwayano. Per gli scrittori americani che si rifanno a Gardner, o ai suoi allievi Carver e Pailey, Hemingway è diventato il big papa, patrimonio stilistico comune, paternità scontata. Nella prefazione agli scritti di Raymond Carver Voi non sapete che cos’è l’amore, Fernanda Pivano sostiene che “la scarna immediatezza della sua scrittura porta alle estreme conseguenze gli ideali stilistici di Hemingway, basati sulle massime “Scrivere cose semplici in modo semplice” e “Scrivere soltanto su ciò che si conosce bene”.
L’apparente facilità e leggibilità di Hemingway, che hanno reso così difficile parlare di lui come artista, mentre decine di biografie scandalistiche sono state scritte sull’uomo, mi ricorda il “re dei toreri”, Joselito. L’inferiorità fisica di Belmonte davanti al toro metteva in evidenza il pericolo, mentre la prestanza di Joselito faceva apparire tutto facile, non si vedeva alcuno sforzo o bravura tecnica. “Guardare Joselito era come leggere D’Artagnan quando si era ragazzi. Si finiva per non preoccuparsene più perché era troppo abile. Era troppo bravo, troppo pieno di talento”. (Hemingway, Morte nel pomeriggio) Solo quando rimase ucciso, apparve evidente a tutti il pericolo a cui si era sempre esposto.
Non altrettanto evidente a tutti è la maestria con cui Hemingway ha combattuto il diabete ancora endemico in letteratura.

3 commenti su “Il diabete letterario”

  1. Teresa Trivellin

    Grazie Patrizia. Per le tante occasioni di conoscere, scoprire, che mi dai. Un saggio, come altri tuoi, che posso proporre a scuola. Ogni volta penso che avrei bisogno di più tempo, tanto. Per leggere.

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