Il cassetto nascosto

Jim Murphy lavorava con me all’ufficio di White Plains. Sua moglie Linda aveva fatto da tramite per la mia assunzione in agenzia. Jim mi presentò al capo come l’amica della moglie, piegando la testa di lato come a dire: è amica di Linda, non mia. Il tono di voce faceva capire che Linda se le poteva tenere, le sue amiche. Era scocciato di dover chiedere un favore. Anche mentre parlava, non guardava l’interlocutore negli occhi. Agitava le braccia per distrarci dal suo sguardo sfuggente. Aveva un corpo magro e spigoloso, pareva consumato dalla rabbia.
Jim era distante con tutti. Quando entrava in ufficio non salutava nessuno, mugugnava tra sé, infastidito forse dal sorgere del sole o dal mondo intero. Faceva il duro. Il Sergente Jim. Era stato sergente da giovane, nella seconda guerra mondiale. La W.W.TWO. Quando c’erano gli altri agenti in ufficio, raccontava qualche aneddoto sulla guerra, e li sfotteva: “Altro che Vietnam. La mia è stata una guerra da eroi, non da vigliacchi”. Ma se ero io a chiedergli dove aveva combattuto, in Europa o nel Pacifico, faceva una smorfia, alzava gli occhi al cielo e sputava: “Ah, non ho voglia di parlare di queste stronzate!”
Gli uomini dell’agenzia facevano a gara per infilare la porta quando Jim attaccava coi ricordi. Ruminava le parole, parlava col mozzicone acceso in bocca, come Humphrey Bogart, e io stavo a vedere come si destreggiava per non accecarsi di fumo. L’età era difficile da indovinare, ma aveva di molto passato i settanta. Linda, che ne aveva sessantacinque, si era spesso lamentata con me: “Povero Jim, invece di godersi la pensione come gli altri, deve ancora lavorare”.
Jim era un agente free lance. Incassava in percentuale al lavoro che portava. Per questo non lo avevano mandato via. Io penso lo tenessero per compassione. Jim aveva bevuto forte, prima e dopo la W.W.TWO. Si era bevuto tutto, compresa l’eredità della moglie. Anche Linda lavorava. Compiangeva il marito, più vecchio di lei, ma Linda guidava il pulmino della scuola tutti i giorni, un lavoro stressante per la sua età. Era timida, timorosa, stava attaccata al volante con gli occhi sotto sforzo, per paura di sbagliare.
Jim era irlandese. Linda veniva da una vecchia famiglia olandese. Buona famiglia. L’avevano quasi diseredata quando s’era fissata di sposare quell’ubriacone nullatenente. Jim aveva lo charme tutto irlandese della favella sciolta, era brioso e disinvolto, e lei era tremante come un agnello.
“Quando ho visto quella bambina alta e bionda, piegata in due dalla fifa, non ho capito più niente”, mi confessò Jim una volta. Questa era la storia del suo trionfo. Il Sergente aveva ancora la sua unica preda. La teneva a briglia corta, dopo tanti anni. Geloso della propria ombra.
Nonostante io avessi appena trent’anni, Linda si era interessata a me durante una cena fra amici, in cui si finì per parlare di letteratura. Italo Calvino era l’ultima scoperta esotica europea ad emergere tra le sterminate novità letterarie americane. Qualcuno aveva visto una recensione dei suoi libri tradotti in inglese, ma nessuno dei presenti lo aveva letto. Si chiedevano se Hollywood avrebbe tratto un film dai suoi libri, come era stato fatto con “Il nome della Rosa” di Umberto Eco. Io ascoltavo senza mai intervenire, cercavo di assorbire la cultura che mi ospitava, ma quella sera, punta nell’orgoglio, parlai.
Dissi che Calvino non si poteva trasporre in un film, la sua scrittura era troppo letteraria per ridurla a un thriller campione d’incassi. Mi guardarono tutti sorpresi: la ragazza esule e muta aveva osato aprir bocca. L’amico che mi aveva invitata disse: “Allora è inutile aspettare il film, ci tocca leggere il libro! Quale ci consigli?” Dissi che erano tutti belli, che potevano scegliere tra racconti di guerra, di fantascienza umoristica o di realismo fiabesco. Ne aveva scritti quasi duecento. “E romanzi?” Non aveva senso elencarli, non sapevo quali avessero tradotto, con quale titolo. Dubitavo che il mio sforzo di far conoscere Calvino li avrebbe convinti a leggerlo. Mi guardavano più stupiti che interessati alla mia cultura libresca.
Linda venne in mio soccorso provocando gli amici con una battuta: “Ma non leggete nemmeno gli americani!” Qualcuno finse di protestare: “Vuoi farci passare da incolti davanti a un’europea?” “Già, il solito pregiudizio sugli americani ignoranti!” ribatté Jim infastidito. Linda allora chiese con aria innocente: “Chi di voi riesce a leggere almeno un libro all’anno?” Gli amici intorno al tavolo risero e cambiarono argomento. Così potei rientrare nella mia nube di spettatrice silenziosa.
Da quella sera, Linda mi guardò con occhi nuovi e una volta mi confidò che scriveva poesie. Le teneva nascoste in salotto, in un cassetto celato sotto una vecchia sedia dallo schienale alto. Ne aveva fatta leggere qualcuna a Jim, i primi tempi, ma lui aveva riso e le aveva sbattuto John Milton e Shakespeare sotto il naso dicendo: “QUESTA è poesia! Non le tue sciocchezze!”
Non ho mai perdonato a Jim la carognata. Che ne sapeva lui di poesia? Di tutte le offese recate alla moglie, quella era la più perfida. Linda aveva continuato a scrivere di nascosto, vergognandosi. Scriveva in un inglese aulico, parole difficili per me. Quando si decise a farmi parte del suo mondo proibito, mi invitò a pranzo, un giorno che Jim era in città. Venne a prendermi con il suo vecchio furgone giallo. Seduta al volante, con la portiera aperta e le lunghe gambe fuori, mi aspettava sorridendo. Sembrava una contadina olandese di New Amsterdam.
Sua zia aveva conosciuto James Joyce a Parigi, e l’editrice dell’”Ulisse” era sua amica. “Due lesbiche!” diceva Linda quando parlava della zia e dell’amica, e scuoteva le chiome bionde con disapprovazione. La zia l’aveva scorrazzata per ville e castelli di mezza Europa, l’aveva fatta posare, ancora bambina, per una foto da Man Ray, poi, quando iniziava qualche intensa storia d’amore, la lasciava sola con la balia. Linda ricordava con orrore la fuga di stanze e corridoi vuoti, risuonanti dei suoi passi. La bohème parigina d’allora doveva essere ben scatenata per aver spaventato Linda. Mai quanto il matrimonio con un sergente alcolizzato.
Quel giorno Linda mi aveva preparato il pranzo con le vecchie ricette del New England, tacchino, cranberry sauce, verdure al forno, lemon pie. La sua cucina era un museo di batterie di rame tenute a specchio e antiche ceramiche bianco-blu olandesi di Delft. Ne era fiera, me le fece toccare una per una, staccandole dai muri dov’erano appese come opere d’arte di indubbio valore. Anche il tavolo di legno scuro del salotto era un pezzo d’antiquariato europeo, fatto arrivare per mare dalla nonna. Erano solo queste le reliquie rimaste in casa. Tutto il resto del mobilio raccontava anni di decorosa miseria.
Con la gelatina della torta tremolante sul piattino, Linda andò alla vecchia sedia col fondo nascosto, e tirò fuori un pacco di fogli manoscritti. Aveva una calligrafia leggera e fitta, come un profilo d’alberi all’orizzonte, tremula e incerta, già deformata dall’artrite. Era commovente guardarla, mentre cercava di decidere quale foglio darmi per primo.
Non riuscendo a leggere più di tanto quel giorno, mi invitò a casa sua una seconda volta, una domenica pomeriggio. Suo marito era in giardino, lavorava alla staccionata. Mi vide arrivare ed entrò subito in casa anche lui, e rimase a gironzolarci intorno. Linda, esasperata, tentò una via d’uscita: “Andiamo a prendere un po’ di sole al parco”. Jim non era disposto a mollare. “È umido al parco. Non essere ridicola”. Poi, vista la nostra determinazione, decise di venire anche lui. Linda, tremando dalla testa ai piedi, disse, senza guardarlo negli occhi: “Ma volevi finire la staccionata per oggi, ricordi?” Jim sputò un’imprecazione e uscì, sbattendo la porta.
Andammo a sederci sul prato dietro la biblioteca, dove c’era un laghetto di ninfee. Era una bella giornata di settembre. Era pieno di api tutt’intorno. Linda si accasciò sulla coperta che avevamo steso sull’erba. Non aveva più voglia di leggere le sue cose. Era depressa. Nonostante Jim fosse sobrio da diversi anni, non c’era più speranza. Non c’era più amore, né c’era mai stato nella sua vita.
“Linda, non dire così”. “È la verità. L’amore non esiste per me”. Grosse lacrime cadevano sul suo vestito di cotone a fiori. Era inconsolabile. Troppo giovane per trovare le parole giuste, le dissi che anch’io ero infelice col ragazzo che frequentavo allora, e che prima o poi l’avrei lasciato. Linda non poteva lasciare Jim, e non c’era più tanto tempo per lei, per imparare a vivere senza paura.
Jim temeva che Linda mi avesse raccontato qualcosa di brutto su di lui e che io lo riferissi in ufficio. Cominciò a farmi discorsi “paterni”, per compensare la sua ostilità iniziale. Quando mi vedeva cupa e silenziosa, attaccava con la storia delle donne attraenti e masochiste.
“Oggi ho incontrato Joel. Uno schianto di donna. Dico, una così può avere tutto quel che vuole dalla vita, no? Beh, indovina con chi si è messa? Con quel violento di Wayne! Le dico: spiegami un po’ Joel, com’è che voi donne belle andate a sbattere con degli stronzi che vi picchiano e vi chiamano puttane? Spiegamelo un po’ se ci riesci. Quelli buoni e bravi li scansate come la lebbra. Quante volte Wayne dovrà cambiarti i connotati perché tu apra gli occhi? Lo dico sempre io: le donne belle hanno qualche grossa colpa da scontare”. Altre volte diceva: “Dovete lasciarci perdere. Siamo una razzaccia. Stiamo bene da soli”.
L’ultima perla che mi regalò spiegava molte cose sul suo rapporto con Linda, ma fu il colpo di grazia per le mie illusioni. “Sai, quel tuo amico, quello che incontro ogni tanto al bar della stazione. Prima che tu arrivassi, stava bene, sai. Ora è davvero messo male. Ha due occhiaie. Sempre a testa bassa, depresso. Chissà cosa gli succede”. Sospirò, in attesa di una mia reazione. Io sarei morta soffocata dalla mia saliva, piuttosto che deglutire.
“Noi siamo dei tipi particolari. È inutile chiederci amore. Noi non amiamo. Teniamo in ostaggio”. Sputò dai denti l’ultima frase con il ghigno da sergente dei marines che tira la coltellata a un Giap.
In quel momento l’ho odiato, perché quel che diceva era vero. Così vero che gli sono ancora grata. Dopotutto mi ha risparmiato lo sbaglio di un matrimonio come il suo. Grazie, sergente Jim. Riposo

6 commenti su “Il cassetto nascosto”

  1. Come sempre i racconti di Patrizia Tenda dipingono una umanità mai banale, personalità intriganti pur nella loro quotidianità. Bello. Da leggere.

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