Sindacalitici e politicisti

C’è stato un tempo in cui prima antagonista della nostra democrazia, a differenza della socialcrazia imperante oggi, era la partitocrazia, termine reso famoso dal mai abbastanza rimpianto Pannella, ma coniato già prima della nascita della Repubblica.
Erano i tempi dei partiti storici, ideologici e capaci di influenzare ogni aspetto della vita pubblica e privata, imponendo propri uomini, se pure tecnici, ovunque si potesse gestire potere o conservare il proprio: dalla Rai sino alle aziende partecipate. Anche i sindacati, risorti dopo la parentesi fascista, non si sottraevano alla diversificazione di colore politico, e non erano infrequenti, caratteristica sopravvissuta fino ai giorni nostri, i salti della quaglia dalle segreterie agli scranni del parlamento una volta cessati i mandati sindacali. Tuttavia restava un solco netto tra sindacato e partiti: ogni governo era l’interlocutore e si trattava sulle cose indipendentemente dal colore politico di chi stava dall’altro lato del tavolo, perché il ruolo dell’opposizione spettava esclusivamente ai partiti che perdevano le elezioni.
La fine della tanto vituperata Prima Repubblica ha segnato l’estinzione del sistema dei partiti novecenteschi, sostituito da contenitori sempre meno ideologici e stabili e sempre più personalistici e precari, sostanzialmente piccole imprese a conduzione familiare o “franchising” elettorali, a seconda del peso di ciascuno.
Tale debolezza strutturale del sistema dei partiti ha ridimensionato drasticamente la partitocrazia, limitata all’occupazione della Rai e poco altro, lasciando il posto prima alla videocrazia di Berlusconiana memoria e, oggi, alla socialcrazia.
Si è così andata affievolendo la supremazia dei partiti sugli altri centri di potere, fino a porli addirittura in posizione di sudditanza: oggi basta un influencer con milioni di follower per creare una lista del venti per cento, come recentemente accaduto a Malta in occasione delle europee. Per non parlare dei poteri economici e finanziari, come facilmente mostrato dal rapporto Musk-Trump, dove tanti ancora si chiedono chi sarà il vero Presidente tra i due. Tale inversione di tendenza non ha risparmiato neanche il rapporto tra politica e sindacato, se pure con sfumature diverse.
A fare maggiormente le spese della precarietà del sistema partitico, numeri ed elezioni alla mano, è stata la sinistra che si è dimostrata, come sempre dalla fine del PCI ad oggi, capace di leggere i cambiamenti come un miope davanti al bugiardino di un farmaco. Chi non ricorda il look di Occhetto nel confronto con Berlusconi o la profezia di Fassino su Grillo, puntuali come i treni dell’era Salvini. A colmare questo vuoto di opposizione, non importa se reale o percepito poiché la prima legge della socialcrazia è “la verità viene creduta prima che capita”, si sta sempre di più insinuando il più grande sindacato del Paese che, pur partendo dai legittimi diritti dei lavoratori, sembra rivolgere la propria critica al governo con piglio da avversario politico, fatto inedito nella prima repubblica e che ha avuto, come prima ricaduta, la rottura dell’unità tra le tre grandi confederazioni sindacali. A dare il senso di questa inversione di tendenza c’è stata l’espressione del segretario Landini durante l’ultimo sciopero generale: “rivolteremo l’Italia come un guanto” (calzino sarebbe stato geograficamente più azzeccato), cui sono seguite critiche tout court al governo, più da leader dell’opposizione che sindacale, indipendentemente dalla loro fondatezza o meno.
E i leader dell’opposizione dov’erano? Sotto il palco ad applaudire, convinti probabilmente di essere i destinatari elettorali dell’effetto positivo di quelle critiche, un po’ come avveniva in passato, quando però la linea di demarcazione era chiara e ciascuno veniva pienamente riconosciuto nel proprio ruolo. Oggi, in socialcrazia, quelle parole rivolte al governo, così forti, efficaci e condivise dal popolo di sinistra, prima che aggiungersi alle critiche da parte delle opposizioni si sovrappongono ad esse fino, spesso, a sovrastarle. Con un duplice effetto: rendere da una parte meno forti le rivendicazioni dei sindacati che, sempre più spesso, si presentano divisi ai tavoli e, dall’altra, rendere più debole la credibilità delle opposizioni, cui già viene rinfacciato un approccio troppo “responsabile” e una ancora insufficiente capacità di comunicazione dovuta alla scarsa dimestichezza con i mezzi ed i tempi della socialcrazia, rispetto ai quali tanto i vari Landini quanto le destre sembrano avere, invece, piena padronanza.
Insomma, per restare nel gergo lavorativo, sembra che ai sindacati tocchi fare una sorta di “straordinario politico” per sopperire all’assenteismo delle opposizioni, con il rischio per i primi di mettere da parte l’attività principale, se non esclusiva, che è il confronto sui temi del lavoro e, per le seconde, di essere messe da parte dagli elettori che si astengono in attesa dell’ennesimo salto della quaglia in grado di dare un leader nel quale riconoscersi alla sinistra.

3 commenti su “Sindacalitici e politicisti”

  1. Una volta le quaglie saltavano da una padella all’altra ora da un morbido prato di finzioni elettorali e passatoie/ tappeti delle camere!

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