Tutta colpa del malva Perkin

La zia Pau tirò fuori dalle veline bianche il vestito della bisnonna, riposto in una scatola dell’armadio. Lo faceva scivolare fra le mani, quasi fosse una reliquia. L’aveva indossato, per il ballo dei suoi diciott’anni, con Il corpetto, un nodo al lungo filo di perle e la sottogonna imbottita che dava volume ai fianchi. Prima di lei, a metterlo, nei riti di passaggio, erano state sua madre e la nonna, custodi per generazioni di ‘costumi’ e tradizioni familiari.
L’abito venne stirato e spiegato in tutta la sua serica lucentezza, con un panno umido inserito fra la stoffa e il ferro caldo. Si sprigionarono sottili vapori e aromi d’antan; molecole di una genealogia femminile che la memoria olfattiva trattiene nelle sue segrete stanze. Seppure stretto in vita, il vestito di seta avorio, a strisce rosa malva e verde salvia, mi cadeva a pennello. Anche senza “crinolina”. Mancanza davvero trascurabile in una festa in maschera, organizzata da ex compagne e compagni di liceo.
L’aderenza della seta alla mia silhouette, rendeva l’abito dimesso agli occhi grigio verdi della zia, divenuti piccoli piccoli. Decisi di ignorarli. Gonfiai con una piroetta il vestito, girandomi su un tacco, e andai nella mia camera. Davanti allo specchio, mi caddero le braccia. Raddrizzai, dalle orecchie all’ombelico, la curva della schiena e tirai dentro la pancia. Poi, feci un passo di lato guardandomi di profilo. Non era solo questione di portamento, pensai. Qualcos’altro non andava e mi irritava. La scampanellata ripetuta di mio padre, che aspettava in giardino, spazzò via qualsiasi ripensamento. Infilati i guanti, perfettamente in tinta con la pochette di tessuto ricamato, corsi a salutare la zia e la mamma per salire in macchina e giungere a destinazione.
Arrivai sola in un tardo pomeriggio di Maggio, a festa inoltrata. Un compagno di classe, baffi biondi posticci, camice bianco e stetoscopio, mi venne incontro con un calice di vino rosato. Una frizzante, piacevole fruttuosita’ che gustai a piccoli sorsi, ostentando la compostezza di una dama. La postura si sciolse in una risata liberatoria quando un baffo del biondo dottorino gli cadde nel bicchiere. Mi allontanai da lui per servirmi ancora da bere e guadagnare, dal tavolo dei cocktails, una più ampia prospettiva della festa. Ogni mio movimento era fruscio e emanazione di una palpabile essenza canforata. Cominciai a sospettare che l’abito avesse qualità alchemiche sue proprie, di antico mondo, oltre a tirar fuori aspetti percettivi di quello sconosciuto insieme che ero io.
La sensibile, inquietante presenza di impronte di altri corpi e vite, trasmesse dal tessuto alla mia pelle, era qualcosa di tangibile e persistente, nonostante le distrazioni della festa. Anche i due calici di troppo, mandati giù a stomaco vuoto, amplificavano più la percezione che gli amichevoli scambi d’idee. Finché la comunicazione, ridotta a dei semplici botta e risposta, diluì in nuvole alcoliche. Stordita da volute di fumo e falsetti dei Bee Gees, mi vidi fuori dai giochi.
Ero convinta che quell’ allegria non mi toccasse. Per goffaggine o timidezza. Mandai giù una manciata di patatine. Al gusto del sale mi ripresi e, senza barcollare, puntai dritto verso la mia ex compagna di banco, seduta sul divano, in fondo al salone. Eccola finalmente, dentro un costume da bruchetto giallo verde, occhialini da miope, gote vistosamente colorate e due antennine mobili, ricadenti a pon pon sulla testa. Sorpresa, mi disse che non si aspettava di vedermi vestita da signorinella d’altri tempi ma con un giubbino da coccinella.
Muta, sprofondai vicino a lei come un bozzolo bianco arrotolato nella seta. Non perse la sua verve e aggiunse, guarda un po’, che ero ugualmente gibbosetta, rossa e a macchioline. Puntava l’indice sul mio décolleté e, prima che aprissi bocca sul mio mutar d’abito, mi resi conto di essere gonfia, violacea, a puntini. Non era morbillo, ma l’inizio di una pruriginosa dermatite da contatto.Tornai di corsa a casa con lei trasformatasi, giusto in tempo, in essere alato.
Nel passaggio in cinquecento fino a casa, passai sotto silenzio l’inquietante carosello delle percezioni. Biascicavo psicologismi, attribuendo fastidi e prurito al senso di colpa. Forse stavo pagando lo scotto di aver fatto di testa mia e non come d’accordo. Ma lei non delirava, ragionava. Pensare che un arrossamento cutaneo fosse scatenato dalla ponderatezza di un calcolo era semplicemente assurdo. Diceva. E inchiodò la macchina davanti a una farmacia.
Fu un sollievo non sentirmi giudicata da lei e tornare a casa con un antistaminico. Ma sì, era valsa la pena rinunciare al giubbino da coccinella e tenermi i risparmi per le vacanze. Tutto passò in una notte o due. Tranne questi antichi brandelli di memoria e di stoffa, rivisitati e infedelmente rappezzati.
Solo anni dopo, venni a sapere che il colore rosa malva dell’abito era stato prodotto con un pigmento sintetico, inventato, a metà ‘800, da William Perkin. Un colore artificiale col suo alto potenziale di rischio.

 

 

 

 

 

 

8 commenti su “Tutta colpa del malva Perkin”

  1. Fabrizia Baldissera

    Do metà 800 sono anche le colorazioni di certi tappeti persiani di seta: se si bagnano e non sono immediatamente asciugati tra almeno 2 asciugamani, il colore si perde o si mescola agli altri colori…purtroppo mi è capitato con un bellissimo tappeto ereditato dal nonno.

  2. Mi è piaciuto il tono ironico dell’autrice Raffaella Gallerati nel descrivere il suo travestimento… Ho rivissuto la scena gradevolmente come da lei descritta … Mi sono divertita a leggere la storia. Rivolgo i miei complimenti all’interessata, avendo apprezzato il tono ironico da lei usato per il suo costume .

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