Da appassionata lettrice mi sono innamorata della Woolf a sedici anni, quando l’insegnante di inglese spiegò in classe Gita al Faro, poi tradotto semplicemente Al Faro. Da quel momento non ho più smesso: romanzi, racconti, diari, biografie. Ovunque appaia, il suo nome mi seduce.
Sette anni fa iniziò il mio pellegrinaggio nelle case della sua vita: Hyde Park Gate, Tavistock Square, Gordon Square, Charleston e persino l’ex Hotel Nettuno sul Lungarno Pacinotti a Pisa. Sul pavimento di quella che oggi è una residenza per gli studenti, c’è ancora un disegno di Nettuno col tridente in mano che certo sarà stato calpestato da una signora di Londra alta circa un metro e settantatré, durante una brevissima tappa del suo viaggio di nozze.
Naturalmente il mio interesse non poteva tralasciare Monk’s House, il cottage che Virginia e Leonard acquistarono nel 1919. Poco prima, la Woolf era stata un po’ sconsiderata: senza chiedere consiglio a nessuno aveva comprato per trecento sterline un vecchio mulino dalle pareti tonde lungo un vicoletto (Pipe Passage), sotto il castello di Lewes. Il mulino si chiamava Round House. Un po’ per le pareti tonde, un po’ perché in mezzo al paese e non sufficientemente “casa di campagna”, Leonard e Virginia vendettero Round House e fecero un affare. Poi comprarono Monk’s House all’asta per settecento sterline.
Era un “unpretending house”, una residenza senza pretese, ma di soldi ce ne vollero parecchi: il soggiorno dovette essere allargato, la camera per gli ospiti a pian terreno fu trasformata in sala da pranzo dopo aver demolito una parete divisoria, e il pavimento in discesa della cucina andava soggetto ad allagamenti continui. Con il ricavato per la vendita di Orlando fu installato un grande caminetto nel soggiorno. Finalmente, nel 1929, fu aggiunta alla struttura principale una stanza tutta per Virginia, con ingresso indipendente (Leonard dormiva distante, al primo piano), dove lei scriveva quando il freddo non le consentiva di andare nel “writing lodge”, la piccola dependance in giardino. Non solo libri meravigliosi, da Jacob’s Room in poi, furono scritti a Monk’s House, ma la casa frequentata da molti amici: E.M. Forster che si bruciò il sedere sulla stufa e versò il suo bicchiere di porto sul tavolino della sala da pranzo (c’è ancora la macchia), Ethel Smith che usava la cornetta per meglio sentire Virginia, Vita Sackville-West che in tempo di guerra mandò in regalo tanto preziosissimo burro.
Ho respirato la loro presenza quando, sette anni dopo il mio primo pellegrinaggio, ho deciso di trascorrere cinque giorni a Rodmell come volontaria per il National Trust. Avrei preferito un lasso di tempo maggiore, ma la lista delle volontarie (la maggior parte sono donne) è lunga e accuratamente selezionata. È già tanto che il National Trust abbia trovato uno spazio per me. Mi piace raccontare questa esperienza del tutto intima e personale anche perché è stata la prima volta che un’italiana si è messa in viaggio esclusivamente per dedicare parte della sua vacanza ad accogliere il pubblico nella casa-museo dei Woolf.
In ogni stanza aperta alle visite ho trascorso diverse ore circondata dagli oggetti appartenuti a Virginia: la poltrona rossa dove sedeva Leslie Stephen, suo padre, la sedia ricamata dalla madre di Duncan Grant, la conchiglia di madreperla che la Woolf chiamava “orecchio di Venere”, lo scialle che le regalò Ottoline Morrell per Natale, il piatto blu del servizio Omega Workshop, che era il suo preferito. A dispetto di tanta saggistica accademica accumulata per anni, ho avuto a disposizione una Woolf tutta per me. Con poco sforzo immaginativo, l’ho visualizzata vicino al caminetto dalle piastrelle decorate da Vanessa Bell con il faro di St. Ives, immaginata appoggiare gli occhiali tondi sulla scrivania del “writing lodge” e perfino incollare le copertine alla sua collana completa di opere di Shakespeare. Non credo di essere arrivata al punto di sentire gli uccelli cantare in greco: mi sono semplicemente lasciata trasportare dalla passione e dall’amore, per come posso provarli. E non sono una mosca bianca. Ho conosciuto tanta gente – fra chi fa volontariato e non – che va pazza per la Woolf. Anthea, per esempio, ha restaurato tutte le copertine dei libri di Shakespeare con pazienza certosina; Gordon siede nel soggiorno da venticinque anni e da venticinque anni, senza retribuzione alcuna, spiega a chiunque entri ogni mobile e ogni quadro di Monk’s House; Margaret analizza, cataloga e descrive ciascun oggetto e sta sempre a domandarsi se potrebbe raccontare qualche dettaglio in più, mentre Alli, la responsabile, non può abbandonare la casa più di mezz’ora al giorno. Se tutto questo non si chiama amore…
Una mattina, proseguendo per il sentiero oltre il parcheggio riservato ai visitatori, ho camminato fino al fiume Ouse. Ho impiegato quindici minuti prima di arrivare alla riva, quindici minuti in cui Virginia Woolf avrebbe avuto tutto il tempo di riflettere, rovesciare le tasche con le pietre e tornare indietro senza essere scambiata per un tronco da un gruppetto di ragazzi, tre settimane dopo essersi suicidata. Ma andò avanti, come ben sappiamo.
Mentre passeggiavo, le mucche biascicavano tranquille sulla riva e una coppia di oche si è levata in alto sopra la mia testa. Mi sono commossa, ma forse è stata colpa del vento implacabile del Sussex. Del resto non è bene lasciarsi sopraffare dal gesto finale. Virginia era anche quella che prendeva in giro Vita quando “seguiva la Campbell per i vialetti”, era quella che si divertiva a spettegolare per lettera con la sorella Vanessa sulle domestiche Nellie e Lottie e che, insieme a Leonard, correva al piano di sopra estasiata quando tirava la catena dello sciacquone, appena l’impianto di acqua corrente fu installato a Monk’s House.
È questa Woolf che ho visto aggirarsi per le stanze, e insieme alle altre volontarie ce la siamo raccontata imparando l’una dall’altra nuovi particolari. Posso dunque chiamarla una Woolf tutta per me e la riavrò quando tornerò a Monk’s House perché è lì, più che altrove, che ancora vive.