Appunti di viaggio dalla nuova Praga

 

Václavské námĕsti: il cuore della città ora come allora. Sembra solo una strada larga che sale fino ai piedi di Venceslao a cavallo. Lui guarda come se nulla fosse, non si è mai preoccupato perché è di bronzo. Noi che abbiamo ricordi di carne e una certa età ripensiamo alle foto dei carri armati sovietici, la gente con le bandiere a fermarli, prima dello strazio del fuoco. La meglio primavera finiva in un sogno precipitato in tragedia. Di questi luoghi è rimasto il nome, a saperlo pronunciare, insieme alle sculture negli angoli di qualche palazzo. Tutte le dittature hanno gli stessi gusti estetici. Ma adesso quei poderosi operai di pietra ornano negozi di mutande e paillettes, manca poco gliele infilino addosso.
I nuovi padroni della piazza sono le scritte bianche e rosse sugli ombrelloni dei bar, sono i sexy shop e gli scarti di magazzino di firme che sono o vorrebbero essere internazionali. Nuove icone chiamate a scacciare i fantasmi che ancora incombono su questo cielo che inizia sereno e poi ti scarica pioggia.
Migliaia di teste, braccia tatuate fino a stingere e braghe calanti ripetono i riti del turismo codificato e acefalo. Una mano potente piena di dollari passa a radere via ogni scostamento dagli standard mediatici. Non ammette differenze tra qui, Milano, Londra o Disneyland.
A nessuno più interessa la Storia, passata per queste strade a stabilire che il sogno finisce dove iniziano i cingoli. Qui si celebra la fine delle idee, delle memorie, dei perché. Confondendo la Malá Strana col famolo strano, il viaggio non è più curiosità delle conoscenze altrui, ma portare in giro la propria ignoranza. Possibilmente ricca. Non c’è parte del mondo che ne sia immune. Un cinese prende una pietra dalla lapide di Jan Palach e la tira a un suo compare, in mezzo alla folla. Un ragazzotto americano spiega ai suoi sodali il monumento di Jan Hus con una sequela di lazzi e piroette. Intorno, i mangifici millantano specialità italiane, ma gli italiani sono a caccia di cheeseburger e Coca Cola. Dunque la città dopo tante ingiurie si è arresa. Non ha più sogni da lanciare nel suo cielo.
Nella furia di cancellare le tracce dei cingoli, ha cassato pure ciò che non era lecito dimenticare. La mia guida è stata stampata quando la Cecoslovacchia era una e le Germanie due, in mezzo un muro. Parla dell’aria dei libri di Kafka intrisa in queste vie. Ora c’è aria di Goodbye Lenin.
Salgo al Hrad col tram, con la voglia di puntare il primo italoamericano che vedo e dirgli “Permette? Cavalier Commendator Praga, proprietario dell’omonimo castello”. Potrei concludere un buon affare. In fondo non è famoso come l’altro, il castello Spielberg, ma posso assicurarvi che proprio qui è stato girato Salvate il buon soldato K.

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