In Memoriam JFK

Il grande Maschio Alfa

di Stefano Bandera

Una zia, sorella della nonna, telefona di mattino presto: «Hanno ammazzato Kennedy». La mamma non dice niente. Nella voce della zia la fine di sogni, speranze, desideri, illusioni. JFK era il grande Maschio Alfa del ventesimo secolo. Pareva capace di tutto. Marilyn gli cantava l’Happy Birthday. Sua moglie era una delle donne più eleganti del mondo. Era giovane, affascinante, eroe di guerra, morto: un’icona prima delle icone. Fu un presidente totalmente mediatico, prima, durante e dopo la sua morte: dal duello Tv contro Nixon, al super8 di Abraham Zapruder, alla foto del piccolo John John sull’attenti davanti alla sua tomba.
Affabulava. Riuscì a far credere all’uomo sulla Luna, alla nuova frontiera, al cittadino che conta più dello Stato. Solo un proiettile magico poteva assassinarlo, un proiettile, come dice Borges, della stessa sostanza di cui furono i chiodi e la croce. Al suo assassino la sorte di Giuda.
L’infame pena di una pubblica nemesi. Lui non morì, nemmeno per tre giorni. Con la crisi dei missili a Cuba, portò il mondo sull’orlo dell’abisso; sostenne l’integrazione razziale, ma con prudenza, per non inimicarsi i democratici del Sud. Fatta la tara al miraggio di Camelot, non fu meglio né peggio degli altri presidenti americani. Semplicemente fu fatto di altro: della sostanza di cui son fatti i miti. La tragedia lo rese divino e la divinità moltiplicò fagocitando il destino dei fratelli. Il suo volto è, ancora oggi, il volto dell’ottimismo americano.
Il suo nome un puro suono separato da ogni significato. Ma l’uomo sulla Luna ce lo portò davvero.

 

11-22-63
di Andrea Lupi

Faceva caldo, veramente caldo. Così usarono la decapottabile. Nessuno si oppose. Non John Connally, neo eletto governatore democratico del Texas, che non lasciò sfuggire l’occasione di farsi vedere a spasso con JFK; non il Presidente, che amava i bagni di folla delirante; nemmeno Jackie, abbottonata nel suo abito confetto.
Il corteo partì dall’aeroporto poco prima delle dodici. Arrivato a Dealey Plaza imboccò la Elm Street, dove i ricchi abitanti di Dallas attendevano frementi il Presidente Kennedy, venuto a batter cassa per la sua rielezione.
Lee Harvey Oswald lavora da un mese al deposito di libri della Texas School, all’inizio di Elm Street. La mattina del 22 novembre, lascia il suo ufficio, sale al sesto piano e si nasconde dietro gli scatoloni in compagnia di un fucile Carcano mod 91 che, smontato, si può nascondere in una portadocumenti.
Appena il corteo imbocca la Elm, Oswald si apposta alla finestra, prende la mira e spara. Il primo colpo attraversa il collo di Kennedy e ferisce il Governatore, seduto davanti. Il secondo centra il cranio del Presidente e finisce anch’esso nel corpo di Connally.
Al secondo colpo, quello che fa esplodere il cervello del marito, Jackie, terrorizzata, cerca di fuggire camminando carponi sul baule della Lincoln, trasformandosi in un bersaglio mobile.
Ma Oswald sta già smontando l’arma. Poco dopo, mentre arrivavano i soccorsi, esce dall’edificio fermandosi a bere una bibita. Sarà arrestato solo poche ore dopo e ucciso in diretta TV dallo psicopatico Jack Ruby. Questa la storia.
Il mito è presto detto: il figlio ha ucciso il padre per possedere mamma America. Ma dopo 50 anni non siamo più così sicuri che Oswald fosse figlio unico. Anzi, il fanatico castrista è ormai declassato a capro espiatorio. Altri protagonisti sono sul palcoscenico.
James Files va ripetendo dal ‘94 di essere stato lui a uccidere JFK. Glielo avrebbe ordinato il boss Charles Nicoletti, che a sua volta ubbidiva a Sam Giancana, in combutta con un pezzo della Cia, mentre l’altro pezzo cercava di fermare il complotto.
Ma su questa affollatissima CSI troviamo anche altri complottisti: l’onnipresente Hoover, il comandante Castro, il KGB, la lobby dei petrolieri, gli immancabili armaioli (gli stessi che, per posta, hanno venduto il fucile a Oswald) e chissà quanti altri ancora.
Presto si paleseranno sulla scena e allargando le braccia declameranno estatici: «America, I’m ready!». Confesseranno, infine, l’omicidio, togliendosi la maschera per rivelare le loro orbite prive di occhi.

 

La tenda da campeggio di Lee Harvey
di Corrado Visone

John Fitzgerald Kennedy fu ucciso da un’arma italiana. Un fucile Carcano 91/38 fabbricato a Terni nel 1940. La carabina a ripetizione ordinaria che per anni fu l’arma lunga di ordinanza delle nostre Forze Armate. Lee Harvey Oswald la acquistò rispondendo a un annuncio economico dell’American Rifleman. 19,95 dollari più spese accessorie e un mirino telescopico in omaggio. Un affare. Lee Harvey era felicissimo di possedere un’autentica carabina italiana, un residuato bellico ancora in ottimo stato. Chiese alla moglie Marina di fargli delle foto dietro il cortile di casa mentre imbracciava l’arma. Lee Harvey era così soddisfatto del suo giocattolo che decise di provarlo subito. Una sera tentò di assassinare il noto attivista politico Edwin Walker. Ma la mira non fu delle migliori. Pazienza, ritenterà.
All’inizio di novembre nascose un pacco, avvolto in una coperta, presso casa di amici. È la mia tenda da campeggio, disse. La mattina del 22 novembre 1963 prese la sua tenda da campeggio e si recò al Texas School Book Depository, dove lavorava. Mezz’ora dopo l’omicidio, la Polizia di Dallas rastrellò l’edificio. L’arma fu trovata al sesto piano, nascosta tra alcuni scatoloni.
Aveva appena eseguito il suo compito. Era stata precisa e silenziosa. Giaceva tra la polvere, ignara di aver cambiato la Storia del mondo.

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