La zuppa di cipolle è un accessorio. L’importante è che lei sia in mutande. Con il grembiule da cucina, ma in mutande. E rigorosamente a piedi nudi. Si alza sulle punte, prende il tagliere e penso che affettare le cipolle non è poi così male. Mentre lei prepara il brodo vegetale – cipolla, sedano, carota, un po’ di vino bianco e un po’ di aromi – io metto il burro nella pentola, lo lascio liquefare e poi ci butto sopra le cipolle fini fini. Appassiscono, si sfaldano, si sciolgono, senza bruciare mentre le controllo a vista. Ma controllo a vista lei, che mi passa due cucchiai di farina. Unisco alle cipolle e metto il brodo. Cuoce, cuoce, cuoce, l’aromatica zuppa di cipolle. E mentre cuoce, un bicchiere di vino lo beviamo. Si cuoce una mezz’ora, per far prendere alla zuppa la giusta consistenza, e nel frattempo ci scambiamo opinioni su Madame du Deffand, il riscaldamento del pianeta e la teoria kantiana del noumeno. Pronta. Taglio due fette di pane per ciascuno, le tosto un po’, le metto in fondo al piatto, copro di pecorino. Verso la zuppa e la ierogamia dei due profumi si diffonde come una gatta nella stanza. Cipolle 10, zuppa 77, gatta 3. Miao, miao.