No facetime, solo abbracci

 

Mio figlio mi chiama in FaceTime, una volta anche in skype.
Quella volta lì dello skype ci eravamo dati una specie di appuntamento, ero a casa di Marco, suo fratello, sabato a mezzogiorno; c’era anche la Gaia, sua figlia, e io ero appena stata dal parrucchiere.
Mio figlio mi chiama da Panama City, la città del Canale, quello che c’è sull’atlante e che mai avrei immaginato dovesse essere uno dei miei primi pensieri appena sveglia. Chiama da Panama, dicevo, perché a 40 anni capita che si perda il lavoro e si debba fare un bel po’ di strada per ritrovarne uno appena appena decente.
Marcello, vieni, c’è lo zio Matteo.
Ciao, come state? Papà sono qui, mi vedi?
Hai voglia di abbracciarlo e gli dici che stai mangiando le cotolette. Ha gli occhi rossi? Dice che andrà al mare, ma dopo, perché il sabato è giorno di paga.
Ma pagate in contanti?
Sì, dice. E tu te li vedi che si mettono in fila come nei film e lui è il capo, quello seduto al tavolino che paga. Ma la voglia di piangere è uguale.
La questione è che faccio tanto la moderna e la tecnologica, e c’ho il picì e l’aifon e uso messenger e uozzap, ma insomma, quando mi chiama non sono mai pronta.
Oggi gli sarò sembrata una strega: spettinata, con gli occhiali sul naso e due golf per tenere basso il riscaldamento. Lui parla già spagnolo, dice che è tornato un attimo nel suo cuarto per telefonarmi.
Domani ancora mare, mamma, il pesce qui è buonissimo, la gente simpatica, non gliene frega niente di come sei vestito, se sei magro o di che macchina hai.
Tra un po’ tornerà a casa, per dieci giorni. Niente FaceTime. Solo abbracci.

Immagine: Roberto Calvino

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