“Ma ho paura di prendere la seggiovia!» gli dissi con la disperazione negli occhi perché un invito così non si poteva proprio rifiutare: mai visto prima un otorinolaringoiatra più incantevole.
«Stai tranquilla, ci sono io!» e mi aprì lo sportello del fuoristrada e mi aiutò a scendere e accompagnò la mia schiena fino alla biglietteria, assieme al mio corpo ormai rassegnato. «Guarda in alto, guarda!».
Poi, solo il silenzio, il chiacchiericcio di un ruscello in basso, lo scorrere delle rotelle su, per il cavo di acciaio.
«Non ci fermiamo adesso, vieni!».
Ma soffro di vertigini!
Stai tranquilla! E appoggiò la mano ampia alla mia schiena dando più vigore al mio passo. Ora ascoltavamo le nostre parole e i passi sulla roccia, una vita intera condensata su per la salita, frasi spezzate dall’affanno e dalla fatica.
Il mio divorzio, il suo, la mia sterilità, la sua, il suo lavoro, il mio, la sua forza, la mia. «Vieni a guardare, vieni, sporgiti appena!».
E mi si fece accanto e mi cinse la vita e poi le sue mani calde sui miei fianchi. «Che meraviglia!» dissi e lui mi fece eco.
Respirammo a fondo ma non ci guardammo per paura di dire troppo. «Beviamo una birra!».
Avrei risposto di sì a qualsiasi cosa.
Restammo per un tempo infinito a guardare il mondo laggiù così lontano da essere dimenticato.
Di nuovo in discesa, in silenzio, e pieni di quello strano incanto, un incontro casuale che ti prende la testa, certe affinità elettive, rare, che una volta che ti entrano dentro, fanno soltanto male.
«Adesso ho paura!», gli dissi pensando a quell’addio prossimo e necessario.
«Stai tranquilla!», e mi trattenne la mano fino alla meta.
Ecco mio marito! E gli voltai le spalle per corrergli incontro.