Fashion victims

 

Un refolo di tramontana e scatta l’operazione Viene il freddo e ho bisogno di qualcosa di nuovo.

Sabato pomeriggio, ore 16: mentre passeggio lungo uno dei cuori commerciali di Roma, ricco di boutique per tutte le tasche, le età e le taglie, di botto punto una coppia di amiche palesemente fashion victims e le seguo.

Entrano in un emporio smart dove si vendono “griffone” tipo Armani e Trussardi, e anche items di casate meno roboanti, e comunque belle e abbordabili. Prima, uno spulcio al limite della maniacalità, poi la scelta e la prova.

Le ex ragazze o bambine di 800 mesi – come diceva la mia mamma – hanno l’aria garrula e benestante. Dunque, penso fra me e me, non getteranno la spugna davanti ai 150 euro dei jeans Armani e nemmeno davanti ai 200 del pullover di sublime bellezza. Sììì, anzi nooo: all’improvviso i pantaloni di vigogna color canna di fucile dal taglio impeccabile diventano per loro «sarebbe una cosa in più, avrei preferito una gonna molto corta da mettere con calze pesanti e stivali», e il pullover «ah no, del blu marine non se ne parla, non c’è glicine oppure rosa pallido?».

Domanda legittima, risposta scontata: ma perché ti vuoi vestire Armani se non ti piacciono il grigio scuro e il blu navy?
La realtà è che le signore con quella cifra volevano comprare ben di più. Fuori di volata dall’emporio e di corsa in un magazzino di provenienza londinese dove si vestono tutte, ma proprio tutte, le ragazzine dai 14 ai 18 anni, che siano filiformi o culone, comunque ancora in età da paghetta – con la quale comprare, appunto, la maglia trendy (poco importa se di materiale scadente) e la minigonna d’ordinanza (chissenefrega se ha l’orlo che sembra cucito sull’otto volante).

Bene, le nostre adulte fashion victims, trovano pane per i loro denti e, senza provare nulla ─ è tutto taglia unica ─ arraffano due chipperrimi leggings orrendamente “lustri” e due sbilenchi over, pazze di felicità perché essendo questi ultimi lunghi e sbiechi, per magia spariscono, come dice la pubblicità, gli inestetismi della cellulite, la coscia latina e il seno dall’incerta consistenza.
Una delle due sussurra all’amica, quando sono alla cassa: «Se mi stanno male li passo a mia figlia».
Non ci credo neanche se lo vedo. Manca ancora l’orgasmo da shopping, ma la strana coppia lo raggiunge ben presto, riprendendo il cammino per la via commerciale.
Lungo i marciapiedi si contano a decine le bancarelle, tutte gestite da giovanotti dello Sri Lanka o del Kerala, circondate di stands dai quali grondano pantaloni, minigonne, palandrane di maglia copritutto, twin–set di “casimiro” (cashmere di dubbia provenienza), viluppi di sciarpe e sciarpette arrotolate a mo’ di serpenti che fanno la nanna e persino top di paillettes, gonne da sera con finta sottogonna di tulle e golfini con la bordura di pelliccia ─ certo non ecologica, ma di animale domestico. Prezzi dai 10 ai 30 euro.

Occhio veloce e manina rapace, le amiche del sabato in un nanosecondo scelgono, consultandosi, un repertorio quasi esaustivo della merce esposta. Conto finale: cento euro una e centoventi l’altra. Trattabili (secondo loro), come si fa al suk dei paesi nordafricani. Ma il cingalese e l’indiano sono irremovibili.

Pagano e, malvestite ma felici, s’infilano in un bar a festeggiare con un happy hour i loro incauti acquisti.

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