A fugassa

“Piggime un tocco de fugassa” (Prendimi un pezzo di focaccia), mi chiede la vecchia signora, con gli occhi così languidi di desiderio goloso, che paiono riempirsi d’olio come quelli della focaccia concupita. “Va bene, vado”, le dico, ed esco, non senza averle fatto quelle due o tremila raccomandazioni (nontialzarenontimuoverenon…).
Corro dal panettiere, a pochi metri da casa, e quasi mi faccio guidare dal profumo inconfondibile della focaccia appena sfornata (combinazione, è proprio l’ora giusta: la vecchia signora – per queste cose – ha buona memoria). “E’ appena uscita, vado a prendergliela di là. Quanta ne desidera?”, mi domanda gentile la signorina al banco. “Una striscia sola, per mia mamma”, le rispondo compunta, “bella bianca” (con molti “occhi” d’olio, per i diversamente zeneisi), le raccomando ansiosa.
Quando torna con la teglia fumante, qualcosa di incoercibile mi spinge a dirle, con imperioso affanno: “No, anzi, me ne dia metà teglia!”. Un ghigno sarcastico (molto zeneise), piega l’angolo della bocca della signorina che, porgendomi il pacchetto ancora caldo, mi augura, ammiccando: “Buon appetito! Alla mamma, eh!”.
Le rivolgo uno sguardo dolorosamente sdegnato, da madonnina infilzata, ed esco con tutta la mia residua dignità.

Mentre scrivo queste brevi note, mia mamma sta gustando la sua seconda striscia di focaccia. Io no, invece. Perché l’ho già finita. La terza.

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